Atlante di Torino





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30 - Tribunale - Prigione
Dalla parte di via S. Domenico, fino all’angolo con via S. Agostino dal 1753 al 1781 c’erano le Carceri Senatorie. In via Corte d’Appello 16 l’entrata al Senato e la regia Camera dei Conti; in via delle Orfane 3 case di proprietà (Anglesio, Falletti di Barolo e Cavassa-Cerutti, dove abitavano anche le guardie di giustizia); dalla parte di via S. Agostino un muro di cinta chiudeva il giardinetto al centro dell’edificio.

 


image-1image-1Nel 1706, durante l’assedio, vi si rinchiudevano i prigionieri francesi che venivano alimentati a pane e acqua. Sessanta di questi contrassero la dissenteria creando una situazione igienica invivibile, al punto che le riunioni del Senato, che si tenevano nello stesso palazzo, per il fetore dovettero essere trasferite nella casa del marchese Pallavicino. I prigionieri che persero la vita vennero sepolti in un appositio pozzo scavato per l’occasione nel giardinetto della chiesa di S.Agostino.
Nel 1800, con una capienza di 350 detenuti, ne ospitava circa 700 in condizioni terribili. L’attesa del giudizio era lunghissima, con casi dibattuti anche dopo 11 anni dal fatto.
L’attuale palazzo venne completato nel 1862, quando il penitenziario fu trasferito alle Nuove (in corso Vittorio Emanuele II).
Nel cortile (primo angolo a destra) da una finestrella usciva il tubo di scarico di una stufa, rimossa nel 1921. Fumava quando la giuria aveva emesso il verdetto e stava bruciando le schede.
Qui si tenne l’ultimo processo con condanna a morte in Italia: ai membri della banda di Villarbasse, fucilati alle Basse di Stura nel 1947

image-1Malefici vudù contro il Re
Nel 1709 Giovanni Boccalaro di Caselle, detenuto nelle carceri Senatorie per tentato omicidio di un esattore del fisco, fu accusato da un altro detenuto, di aver preparato una statuetta di cera per compiere malefici contro il re.

Dopo tre interrogatori vene emessa la terribile sentenza di cui si può leggere il verbale qui a fianco, eseguita in piazza delle Erbe (davanti al Municipio) il 30 gennaio 1710.

Qui a fianco il biglietto con cui, secondo la sentenza, Giovanni Antonio Boccalaro dovette chiedere scusa, prima di essere sottoposto al terribile supplizio per aver cospirato con malefici e stregonerie contro il Re. Nel testo si legge: Io Gio Antonio Boccalaro chiamo umilmente perdono a S.D.M. (Sua Divina Maestà) a S.A.R. (Sua Altezza Reale) alla Giustizia e a tutto lo Stato del mal esempio da me dato nell’aver cospirato contro la persona di S.A.R.

 

image-1Giovanni Antonio Boccalaro, fu condannato a fare pubblica ammenda scritta (sopra) e a voce, sulla pubblica piazza, prima dell’esecuzione, effettuata con l’applicazione delle tenaglie infuocate, poi appeso per tre giorni, quindi squartato, con i quarti esposti alle quattro porte e la testa su una colonna infame, il resto bruciato.
Qui a fianco il verbale dell’esecuzione:

Atti Criminali del Fisco di S.A.R. in Torino sedente
contro Gio. Antonio Boccalaro di Salussola,
residente in Caselle.

“...Sentenza esseguita li 30 so la piaza dell’herbe, ove due ore doppo è stato appeso per un piede, sino al terzo giorno all’hore 21, indi, precedente il suono della campana, è stato squartato e riposta la testa sopra la colonna infame, li quarti fuori delle quatttro porte di Torino ed il rimanente del cadavere è stato abbrugiato e sparse le ceneri al vento..
Il tutto precedente emenda pubblica nell’uditorio del Senato sedente con toga rossa.”

 


 

image-1I sortilegi del sacerdote
L’osso rinvenuto nel 1721 in una cella delle carceri Senatorie,
con il sacchetto che lo custodiva, sigillato dall’inquisitore: secondo la testimonianza del delatore Daniele Onorato, era usato dal sacerdote Antonio Gaetano Albanelli per i suoi sortilegi.

 

 

image-1image-1La bibbia in cui padre Albanelli, detenuto nelle carceri Senatorie per debiti, nascondeva il biglietto “magico” con le formule dei sortilegi. Nell’istruttoria risultò che l’intenzione del prete era quella di far morire il re e suo figlio.
Dai verbali risulta che ci fosse in atto un vero e proprio colpo di stato cui partecipavano diversi membri del clero e della nobiltà. L’Albanelli fu tradotto nella fortezza di Miolans, in Savoia, e di lui e del delatore non si seppe più nulla.



30 - Il gergo della mala

babacio: grimaldello
barrette: anni di carcere
beive: arrestare
boghe: catene ai piedi
Casanca: il carcere
casca: grassatori
Coca: banda
ferm al feu: uno che non tradisce
flamba: postribolo
fourajeur: ladro con destrezza
gafe: guardie
gande: prostitute
giusta: la polizia
grata: ladro
lingher: coltello
manighin: manette
morto: bottino
mut: cellulare che trasporta i detenuti
pianto: ano
pigro: ladro
pigra: zingara
poula: polizia
posta: carcere
santa nasarela: culo
scamuffà: travestiti
scranna: corte d’Assise
scurpi: i giudici
signor Carlo (o Carlo): denaro, bottino
slaga: punizione corporale
smurfì: mangiare
stildati: arrestati
teodat: chiese
tira: spia
trufadur a de lunga: bari
trentini: mesi
vinattiere: borsaiolo (diminutivo: vin)
vincenz: i gonzi
Vola: Volante, polizia in borghese

30 – Complotti e morti misteriose
Nel 1647 venne pubblicato un Almanacco Astrologico nel quale, per l’anno successivo, c’era la previsione della morte di Madama Reale (nascosta sotto il nome fittizio di Venere e di Cibele, ma chiaramente riconoscibile) e di suo figlio. L’autore era Giovanni Gandolfi monaco della Consolata. Arrestato, rinchiuso al Castello (palazzo Madama) e poi qui, alle carceri Senatorie, tentò di uccidersi tagliandosi le vene, ma venne salvato.


Dagli interrogatori sotto tortura emerse che, complici il senatore Bernardino Sillano e l’aiutante di camera Giovanni Antonio Gioia, avevano pensato di assassinare Madama reale col veleno. Ripiegarono poi sulle “incantagioni”, cioè malefici attuati con una statuetta di cera, formule e la spina di un pesce.

Il Sillano fu incarcerato nella torre del Castello, con l’insolito privilegio di un cameriere che gli portava i pasti da casa. Fatto che suscitò sospetti di altre connivenze, accentuati dalla sua morte misteriosa. Undici medici e sei chirurghi esaminarono il cadavere, non trovando spiegazioni per l’accaduto, ma stabilendo che non c’era traccia di veleno.
Il Gioia, condannato alle tenaglie infuocate per poi essere legato alla coda di due cavalli e quindi squartato, venne invece strozzato in carcere come pure il monaco che poi venne appeso per un piede al patibolo.

image-130 - Il proclama della banda Artusio
La banda Artusio, detta dei Vinattieri, intorno al 1850 imperversò nelle strade intorno alla città per poi venire catturata e giudicata in un famoso processo definito dei “16 assassini”. La vicenda assunse anche toni politici: il giornale “La Campana”, infatti, pubblicò un vero e proprio proclama dei fratelli Artusio che auspicava l’incameramento dei beni ecclesiastici.

Dopo un lungo dibattimento, il 22 febbraio 1850, alla lettura della sentenza che comminava tre condanne a morte oltre a svariati anni di carcere, scoppiò un tumulto: dalla zona del pubblico partì uno sparo verso Pietro Artusio (difeso da Angelo Brofferio) che con le sue confessioni aveva denunciato i complici. Fu un pandemonio con quindici degli imputati (alcuni erano morti durante il dibattimento) che tentano di raggiungere il delatore per vendicarsi. Nel parapiglia il maresciallo dei carabinieri Carlo Panizza lottando con il cugino di Pietro, Vincenzo Artusio (che si era visto appioppare 20 anni di carcere), gli spara un colpo fulminandolo all’istante. Il tumulto si placa e il 18 aprile le condanne capitali eseguite al rondò della forca.

Nel 1848 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che cancellava gli sconti di pena o anche l’impunità per gli imputati che denunciavano i loro complici. Quello che Angelo Brofferio definì il “Mercanteggiare del giudice con gli assassini”. Ma a Pietro Artusio vennero ugualmente riconosciuti questi benefici e per le sue confessioni si vedrà assegnare solo 5 anni di carcere, invece dei lavori forzati a vita.

Le bande di malavita: Leggi un approfondimento su le Coche torinesi



30 - Jack lo squartatore a Torino
Nell’inverno del 1888, mentre a Londra colpiva Jack lo Squartatore, il più famoso serial killer della storia criminale, a Torino si registrano tre delitti che replicano esattamente le modalità usate nella capitale inglese. I tre casi rimarranno insoluti.

30 - I trucchi degli avvocati
Nell’ottocento gli avvocati più esperti piazzavano tra il pubblico individui dall’aspetto venerando, per lo più anziani con belle barbe bianche e aspetto grave (anche se le guance rubizze denunciavano una certa passione per il vino) bene in vista alla giuria, per accompagnare con gesti di assenso e approvazione le loro arringhe. L’effetto, pare, fosse assicurato.

30 - Reati
Uno dei problemi principali riguardava la sicurezza delle strade fuori città e in collina, battute da briganti.
Nel 1852 il giornale “Il Risorgimento” racconta di smercio considerevole di vino artefatto.
Nel 1881 c’era già chi metteva in atto il trucco del cambio della valigia.

30 – Il magistrato poeta
Qui fu magistrato Giovanni Camerana (1845-1905) che si dedicò agli studi di legge per volontà paterna. Poeta della Scapigliatura si autocensurò perchè non riteneva compatibile il suo ruolo di giudice con la poesia, per questo le sue opere furono pubblicate solo postume. Il profondo disagio esistenziale e la malattia psichica lo portarono al suicidio.

image-130 - I primi studi di criminologia
Sui detenuti lo scienziato Cesare Lombroso (1835-1909), effettuò i primi studi al mondo di antropologia criminale. Raccolse innumerevoli reperti, buona parte dei quali sono esposti nel museo sito in via Pietro Giuria 15.

 

Vedi alcuni dei reperti raccolti da Cesare Lombroso

 

 

 

 

 

 

Le bande di quartiere: le famigerate Còche
Il termine Còca lo troviamo per la prima volta nel 1838, utilizzato dalla polizia municipale, per denominare la banda del Gambero; l’origine di questa definizione però non è mai stata chiarita.
Le Còche erano vere e proprie bande di quartiere formate non solo da sfaccendati ma pure da garzoni, apprendisti artigiani che dopo il tramonto si davano al teppismo che spesso degenerava in criminalità.
Si iniziava molestando e insultando i passanti in compagnia di donne, attaccando briga con militari e funzionari in divisa, portandosi via come trofeo berretti ed altri pezzi delle loro uniformi.
Dal 1840, vista la crescita del fenomeno e il ripetersi delle azioni violente, le autorità presero vari provvedimenti come il riformatorio della Generala. Si mosse anche con le iniziative promosse da don Bosco.
Da allora il termine Còca è rimasto nella parlata cittadina e con un significato che oscilla da quello di banda di giovani teppisti fino a quello di vera associazione di malfattori.

Leggi la monografia sul famoso processo a Giovanni Pipino

Giovani sbandati, una piaga del XIX secolo:

Vedi l'approfondimento: un rapporto del Vicariato di Polizia del 1845

Il gergo della mala
Nell'800, ai tempi del Cafasso, nelle «Memorie di un carcerato ravveduto» di Giovanni Tamietti di Cambiano si legge che nel gergo dei carcerati erano detti «ladri da burro o da stracci» coloro i quali non avessero ancora compiuto qualche prodezza che li rendesse degni dei ladri veterani.
I Confratelli della Misericordia, che «avevano lo scopo preciso di soccorrere, di assistere e confortare i carcerati, specialmente i con­ dannati all'estremo supplizio o alla galera», erano denominati fami­ liarmente, in buon torinese, «Compagnon ed la forca» e al Cafasso, che accompagnava i condannati al supplizio, si affibiò il titolo di «Preive 'd la forca».
È esplicito inoltre ciò che significasse «fesse gatié 'l còl da Gasprin» essendo boia Gaspare Savazza ...


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