Atlante di Torino
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Via Garibaldi
La contrada di Dora Grossa, la via Garibaldi odierna, segue il tracciato del «Decumanus Maximus» della città romana, dalla Porta Praetoria alla Porta Susina.
L'arteria, prolungata poi oltre questa porta fino alla piazza Statuto col terzo ingrandimento della città del 1702, raggiunge oggi la lunghezza di circa un chilometro.
La contrada di Dora Grossa prese nome da un canale d'acqua corrente scoperto che la percorreva al centro (« dòira » in piemontese) di dimensioni maggiori di altri rigagnoli che percorrevano altre strade.
Questo fin dal 1573 anno in cui si eresse sulla sponda della Dora Riparia un edificio detto il Casotto, con lo scopo di raccogliere acqua dal fiume e riversarla a mezzo di canali attraverso la città, sia per la nettezza urbana, sia per eliminare rapidamente l'accumulo di eventuali nevi in inverno, sia per rinfrescare la calura nella stagione estiva, ma anche e soprattutto per poter intervenire immediatamente ed efficacemente in caso di incendi.
Un altro Casotto delle acque fu eretto nel 1792 in piazza Susina (piazza Savoia d'oggi), per meglio regolare l'erogazione delle acque in via Dora Grossa. Durante la dominazione francese la strada fu chiamata rue de la Doire ed anche rue du Moncénis per la sua direzione verso quel colle.
Nel corso dei secoli l'allineamento del fronte dei fabbricati si era quasi del tutto perduto e la contrada aveva via via assunto un andamento serpeggiante, con slarghi e strettoie che ne rendevano difficoltoso il transito. L'antica arteria, una delle più importanti della città, ma che stretta e tortuosa proseguiva fra modesti edifici non apparve più degna, specialmente dopo gli ampliamenti e le sistemazioni della piazza Castello e della contrada Nuova (via Roma).
Ma fu solo nel 1736, che si rese possibile l'ampliamento, l'allineamento e l'abbellimento della contrada di Dora Grossa, su progetto degli architetti Bertola, Plantery e Lampo. Al contrario di quanto era quasi sempre avvenuto per altre ricostruzioni, per questa contrada la scelta architettonica restò libera, ma l'impostazione urbanistica risultò unitaria e lo stile delle facciate risentl dell'influenza juvarriana.
Gli edifici furono quasi interamente ricostruiti evitando di addossare soltanto nuove facciate su antiche costruzioni, come era accaduto per la contrada Nuova. La ricostruzione durò complessivamente ventidue anni, ma si definì soltanto dopo trentanove, nel 1775, anno dell'inaugurazione. L'allineamento venne fatto in modo che l'asse della contrada coincidesse col centro del portone del Palazzo Madama ed all'angolo della contrada della Consolata coincidesse con l'asse del tratto di strada previsto nei piani di ingrandimento della città, verso nord-ovest. La larghezza della strada passò così dai metri quattro e cinquanta precedenti, ai metri undici e quaranta della nuova.
L'unico edificio fuori allineamento fu la torre del Comune, posta all'angolo della contrada di San Francesco d'Assisi, torre che venne poi abbattuta nel 1801, sotto la dominazione francese.
Dato che al centro della contrada scorreva un rio e numerose « pianche » o ponticelli ne favorivano l'attraversamento, non era raro il caso di vedere, qualora l'acqua fosse più alta, signore prese in braccio per essere aiutate nell'attraversamento senza bagnare le lunghe sottane.
I ponticelli erano formati da una lastra di pietra sorretta da una coppia di bassi pilastrini, pure in pietra, che il popolo aveva definito «dent 'd Ravera». Costui era il tecnico del Vicariato, incaricato di queste piccole opere pubbliche. Soltanto dopo il 1830 l'arteria fu dotata di un canale sotterraneo ed abolita la « dòira grossa ».
Probabilmente già fin dall'inaugurazione dell'ingrandimento la strada era dotata, dai due lati, di marciapiedi rialzati.
Nel 1846 la contrada fu dotata di lampioni a gas, al posto di quelli a olio preesistenti. Ben diversa da oggi doveva apparire la contrada di Dora Grossa per tutto il secolo XVIII ed ancora all'inizio del successivo a causa della scarsità di negozi ai piani terreni delle case.
Nel 1821 vi era soltanto qualche bottega di stoffe di lana e di seta, qualche orefice ed orologiaio.
Gli altri negozi erano nelle vie trasversali e per gli approvvigionamenti di generi alimentari ci si serviva dei mercati. Nel corso del XIX secolo le botteghe andarono via via aumentando di numero, con trasformazione dei piani terreni ed aperture di porte e vetrine. Con i negozi aprirono sempre più numerosi i caffè di cui ricordiamo soltanto i maggiori e più noti in gran parte scomparsi o sostituiti da altri.
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Ai numeri uno-tre c'era il Caffè Calosso, che nel 1847 cambiò nome in Caffè della Lega Italìana, successivamente fu sostituito dalla Libreria Lattes.
All'angolo di via Conte Verde il Caffè Barone, mentre all'angolo con via Sant'Agostino nel 1848 si inaugurò il Caffè Alta Italia, divenuto poi Goria, locale che a mezzogiorno si trasformava in ristorante particolarmente frequentato da giudici ed avvocati che dovevano sbrigarsi per la ripresa delle udienze.
All'angolo della contrada della Consolata, molto elegante, il Caffè delle Alpi, che nel 1913 chiuse i battenti per trasformarsi, anni dopo, in un cinematografo. Altro famoso locale fu pure il Caffè Bedotti.
In tutti i caffè torinesi per tutta la mattinata si serviva fra l'altro il famoso « bicerin ». Il « bicerin », secondo il Viriglio, era il figlio della «bavareisa», bevanda composta di latte, caffè e cioccolato che veniva servita, già mescolata e dolcificata con sciroppo, in grossi bicchieri di vetro. Nel «bicerin» invece, i tre ingredienti erano serviti separatamente sempre caldissimi e mescolati secondo il gusto del cliente. L'indicazione «pur e fior» significava caffè e latte; «pur e barb » significava caffè e cioccolato, mentre « un pò 'd tut » significava la miscela dei tre ingredienti. In un bicchierino a parte, donde si dice derivi il nome « bicerin », si serviva la « stissa » che di norma era di caffè puro. Il prezzo del « bicerin » era intorno al 1850 di quindici centesimi e soltanto nel 1913 fu elevato a venti, ma ne occorrevano altri cinque se la « stissa » era di cioccolato ed altri dieci se servito nel « tasson » di maggiori dimensioni. Col « bicerin », a richiesta, era offerta la «cavagnétta» (cestello) con vari tipi di biscotti da ammollo. I più comuni erano i « torcèt », i « savoiard » ed i « foré », ma esistevano pure i « tortillié », i « parisien », i « briòss », i « democratich », i « pìcol 'd fra », le « pupe 'd monia », i « chifel », i « biciolan », i « garibaldin » e le « michette ».
Quasi tutte le case di via Garibaldi hanno, specialmente le più antiche e signorili, delle belle ringhiere di balconi in ferro battuto e non poche, nei disegni dell'ornato, inseriti graziosi monogrammi dei primi padroni della casa.
Ai numeri uno-tre è una casa con facciata eseguita su progetto dell'architetto Pagano del 1770. Al numero due, all'angolo di piazza Castello c'è la casa eretta per la famiglia Quaglia signori di Barbaresco nel 1771 su progetto dell'architetto L. M. Barberis.
Ai numeri cinque-sette, isola di Sant'Avventore, sorge la casa dei marchesi Cacherano di Osasco con facciata costruita nel 1771 su progetto degli architetti T. Beria, F. Dellala di Beinasco ed L. M. Barberis.
Al numero 9bis nacque Nino Oxilia (1889-1917), autore di “Giovinezza”, inno dei laureati di legge del 1909, adottato poi dal fascismo, e di “Addio Giovinezza” la rivista goliardica che celebra l’epopea degli studenti e delle sartine nella Torino del primo novecento.
Esponente della bohème torinese del primo Novecento, fu delicato poeta crepuscolare, sceneggiatore e regista di 8 films, morì in combattimento nella prima Guerra Mondiale.
All'angolo con via XX Settembre vi è la chiesa della S.S. Trinità innalzata sulla precedente basilica di Sant'Agnese nel 1590 su progetto dell'architetto Vittozzi, ma soltanto nel 1660 la chiesa fu completata della cupola. L'altar maggiore è attribuito all'architetto Morello. All'arricchimento delle decorazioni interne con marmi preziosi, contribuì anche il Juvarra.
Del 1852 è l'attuale facciata dovuta all'architetto Mancini.
Nell'isola di San Simone, tra le contrade di San Tommaso e dei Mercanti, circa ai numeri undici e tredici, sul lato sud della contrada un tempo si apriva un corto vicolo ed una piazzetta, con in fondo la chiesa di San Simone distrutta nel 1729.
Nel 1721 era stata istituita una chiesa parrocchiale dedicata a San Simone e Giuda in borgo Dora probabilmente in sostituzione di quella da demolirsi nel vicolo omonimo della contrada di Dora Grossa. Nel 1780 fu posta la prima pietra e nel 1785 la chiesa era finita, su progetto dell'architetto Dellala di Beinasco. Fu abbandonata nel 1882 e sostituita dalla chiesa parrocchiale di San Gioacchino, edificata su progetto del Ceppi.
Sulla piazzetta di San Simone si affacciava anche l'Oratorio di San Maurizio, mentre al lato ovest c'erano i palazzi Costa di Arignano e Nomis di Pollone, seguiti dalla « specieria » Pateris ed a est i palazzi Cinzano e Della Chiesa di Roddi (con fronte sulla contrada di San Tommaso sei), seguiti dal famoso « panataro » Brunero, inventore dei grissini.
Sulla piazzetta ancora nel 1868 vi era un'osteria detta di San Simone.
Al numero dodici, fra le contrade Conte Verde e Milano, c'è il palazzo che si alza su tre archi, i famosi « portièt » appartenente nel 1868 al conte Federico Sclopis di Salerano, che ivi nacque e morì; ora è del Comune di Torino. Il palazzo venne costruito nel 1756 con la sistemazione della piazza delle Erbe su progetto dell'architetto Benedetto Alfieri.
Al numero quattordici è il prolungamento laterale del palazzo del Comune. Qui un tempo era in un cortile un'antica osteria detta della Griotta e qui pure, nel medioevo, dirimpetto alla torre civica, era stata la sede del Comune.
Nell'isola di San Rocco ai numeri quindici-diciassette è la casa dei Bertolotti sopraelevata nel 1791, su disegni dell'architetto Cardona.
All'angolo con la contrada San Francesco d'Assisi, al numero diciannove, oltre alla casa dei Beccuti, una delle più antiche famiglie torinesi, sede del primo Studio Universitario, vi era anche la casa dei Borgesii, altra antica famiglia della città, la cui torre servì di torre del Comune finché non fu costruita, circa nel 1375, quella sull'angolo della contrada di San Francesco d'Assisi.
Al numero 22 il settecentesco palazzo Biandrate di S.Giorgio.
Dal 1854 al 1859 vi abitò Nicolò Tommaseo.
Segue al numero 23 il palazzo Durando di Villa, eretto nel 1736 su progetto dell'architetto Gallo. Per lascito testamentario il palazzo passò poi in proprietà dell'Ospedale San Luigi. I Durando discendevano da un famoso acquavitaro « Sor Durand » ricordato anche nell'Arpa Discordata. Aveva bottega presso la torre comunale e fece fortuna tanto che poté provvedere alla costruzione del palazzo ed i discendenti nel 1736 furono fatti conti.
La famiglia si estinse nel 1791.
All'angolo con la contrada Botero si incontra la chiesa dei Santi Martiri, di cui fu iniziata la costruzione, sulla preesistente parrocchia di Santo Stefano, nel 1577 su disegno dell'architetto Pellegrino Tibaldi, per commissione dei padri della Compagnia di Gesù.
L'altare maggiore è opera di Filippo Juvarra.
Al numero 25 c'è l'edificio, già Casa Professa dei Gesuiti, eretto su progetto attribuito all'architetto Agostino Provana nel 1692.
Il progetto di allineamento sulla contrada di Dora Gorssa è però dell'architetto Bernardo Vittone del 1769.
L'architetto Martinez ne diresse i lavori, con aggiunte alla facciata negli anni 1770 e 1771. Il fabbricato subì ancora restauri nel 1785 ad opera di L. M. Barberis. In questo edificio è la cappella della Congregazione dei Mercanti e Banchieri eseguita su progetto dell'architetto Provana nel 1663; l'altare è opera di Filippo Juvarra.
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Per la rettifica dell'allineamento della contrada avvennero dei cambiamenti negli accessi alla cappella, su progetto del Vittone, datato 1769. Nel 1797 fu rifatto l'altare su progetto dell'architetto M. E. Buscaglione.
Nel medesimo edificio è pure la Cappella o Oratorio dei Nobili ed Avvocati eretta nel 1694, ma con ingresso dalla contrada degli Stampatori.
Al numero 26 l'antica farmacia Bosio via Garibaldi già esistente all'inizio del 1600, con regie patenti dal 1715, qui dal 1781. La facciata risale alla fine del 1800.
Al numero 28 sorge il palazzo Fontana di Cravanzana, passato poi in proprietà Ketteler, costruito su progetto dell'architetto G. B. Plantery nel '700.
Ai numeri 31 e 33 troviamo il palazzo San Martino della Motta, passato poi in proprietà dei conti Balbo Bertone di Sambuy, con facciata eseguita nel '700, su progetto dell'architetto Martinez.
All'angolo con la contrada delle Orfane vi è la chiesa di San Dalmazzo ricostruita nel 1530, su altra chiesa precedente del secolo XI.
Dopo i danni subiti nell'assedio del 1706, nel 1715, si fecero altri lavori fra cui il più importante il rifacimento della facciata arretrandola e lasciando così davanti alla chiesa un piccolo slargo. Nel 1710 era già stato alzato il campanile e nel 1756 l'architetto Vittone compì altri restauri.
Al numero 35 c'è il palazzo San Martino d'Agliè che passò poi in proprietà dei marchesi d'Angennes e quindi dei conti Galli. Per questi ultimi nel '700 l'architetto Ceroni progettò un rifacimento dell'edificio.
Nell'isola di Sant'Innocenzo, corrispondente ai numeri quarantacinque e quarantanove, vi erano le case Marenco di Moriondo e dell'avvocato Ignazio Chionio. Per la prima redigeva una pianta e compiva un progetto di facciata, con formazione di poggioli verso la contrada di Dora Grossa, l'architetto G. V. Canavesso nel 1788, mentre nel 1797 l'architetto P. F. Rocca progettava la facciata della casa medesima verso la contrada della Cittadella.
Per la seconda redigeva un progetto per la facciata l'architetto Riccati nel 1785. Ambedue i fabbricati furono distrutti nei bombardamenti aerei della guerra 1941-45.
Nell'isola di Santa Rosalia, al numero cinquantacinque, è la casa Reina con lavori di sopraelevazione e facciata ad opera dell'architetto P. F. Rocca del 1784.
Al numero quarantadue il palazzo, già sede della « Gazzetta del Popolo », eretto addossato alla vecchia caserma Da Bormida e costruito nel 1928 su progetto dell'architetto Baldassarre di Rossana. La precedente facciata dell'antico quartiere prospicente la contrada di Dora Grossa era opera dell'architetto Birago di Borgaro che nel 1769 aveva completato il progetto juvarriano.
Nel 1864 la contrada ebbe il suo completamento con la costruzione dei due ultimi isolati tra i corsi Palestro-Valdocco e la piazza Statuto.
Gli edifici, dotati di portici, sorsero su progetto dell'architetto A. Marchini l'uno e dell'architetto G. Brocchi l'altro.
Sull'angolo della contrada di Dora Grossa con la contrada San Francesco d'Assisi, nel 1375 era stata eretta la nuova torre del Comune che nel 1389 doveva essere finita o quasi, se in quell'anno fu possibile dotarla di una campana comprata d'occasione dall'Abate di San Mauro. Nel 1392 venne aggiunto un orologio e nel 1449 una cuspide. Nel 1575 questa fu decorata con ornamenti in rame e sormontata da una croce di bronzo, la cui asta attraversava il corpo di un toro rampante pure di bronzo con le corna e la coda argentate.
Il bovino, che gli Ordinati del Comune definiscono « un toro grosso come un mottone », era vuoto ed il vento, passando per l'interno, lo faceva emettere strani rumori che volevano essere minacciosi muggiti. La torre era alta diciannove trabucchi, cioè circa cinquantacinque metri. Restauri imponenti, se non parziale ricostruzione, vennero eseguiti alla torre nel 1666 ed altri furono necessari dopo il 1706, perchè durante l'assedio fu colpita spesso dalle cannonate francesi, in quanto era un'importante punto d'osservazione.
Il toro durante l'assedio non corse rischi perché fu calato nel giugno del 1706 e rimesso al suo posto soltanto nel 1713. L'editto del 1736 che ordinava l'allargamento di Dora Grossa, decretava di conseguenza l'abbattimento della torre che veniva a sporgere più di due metri sul nuovo filo di costruzione. L'antica torre avrebbe dovuto essere abbattuta quando fosse completata quella nuova, che venne iniziata nel 1786 su progetto dell'architetto F. Castelli all'angolo della contrada del Senato con quella d'Italia (via Corte d'Appello angolo via Milano). Ma fermatisi i lavori della nuova torre all'altezza dell'adiacente Palazzo Comunale, anche il deliberato abbattimento venne rinviato. Intanto nel 1798 furono asportate le lastre di piombo della cuspide e la torre fu anche più volte colpita nei duelli di artiglieria fra austro-russi e francesi. Nel 1801 il Governo Provvisorio decretava l'abbattimento della torre, il 23 aprile veniva calato il toro, probabilmente finito in fonderia per far cannoni, e, pochi giorni dopo, la torre cadeva sotto i colpi di piccone.
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