Atlante di Torino
L'assassinio di Antonio Banfo
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Nella notte tra il 18 e il 19 aprile 1945 siamo al culmine delle tensioni provocate dallo sciopero generale quando vengono uccisi due lavoratori della Fiat Grandi Motori: Antonio Banfo, «una delle figure più note del mondo operaio torinese" e Salvatore Melis, suo genero e convivente.
Banfo è una particolare figura di operaio cristiano e comunista (lo definiranno l'operaio con la Bibbia in mano) personaggio stimato anche dagli avversari visto che era in grado di trattare con i rappresentanti di Salò per evitare la deportazione in Germania di suoi compagni di lavoro.
Sono
quasi le 23, quando un camion e un'automobile si fermano davanti alla casa popolare di via Scarlatti 4 bis, in Barriera di Milano, dove abita la numerosa famiglia Banfo. Una squadra di almeno una decina di uomini armati scende dai mezzi e fa irruzione nell'appartamento a piano terra: «La figlia - si legge nella relazione della Gnr - domandò chi erano gli armati, costoro risposero di essere partigiani» e uno fece vedere una tessera della Brigata Garibaldini [sic] senza però che si potesse stabilire il Reparto. All'esterno intanto si udivano dei colpi di arma da fuoco. Il Banfo Antonio e il Denis [sic] Salvatore, che dati i loro sentimenti politici temevano un prelievo a domicilio, passando dal balcone, erano scesi in cantina e si erano rifugiati in una latrina sita al terzo piano di via Monterosa n. 59.
Gli armati [ ...] visitarono tutti gli alloggi dell'isolato [ ...]. Finalmente il Banfo e il Melis vennero rintracciati [ ...] uno dei due ricercati era ferito ad una mano e perdeva sangue, ferita prodottasi per lacerazione dovuta al chiodo di una scala della quale si erano serviti [ .. .]. Vennero fatti scendere prima il Banfo Antonio e poi il Melis Salvatore che però non era ricercato. Fu egli stesso a dire che non avrebbe lasciato andare suo suocero da solo. [ ...] La permanenza del gruppo di armati è durata circa 45 minuti. [Poi] il gruppo uscì dal portone della casa n. 59, altri quattro uomini erano fermi all'angolo di via Monterosa e via Scarlatti: uno di essi fece un segnale con un fischio e poi fece scoppiare una bomba a mano. I fermati furono fatti salire su di un autocarro e condotti via.
Poco dopo i due uomini vengono uccisi con raffiche di mitra all'angolo tra corso Novara e corso Giulio Cesare, a ridosso di una palizzata prospiciente il cinema Adua. È lo stesso punto dove solo un paio di giorni prima sono stati ammazzati altri quattro antifascisti.
L'accaduto appare subito di una notevole gravità agli occhi dei rappresentanti del potere statale poiché assesta un colpo decisivo alle speranze di presentarsi come garanti credibili della legalità e dell'ordine pubblico.
Un riflesso dei timori suscitati si può cogliere nel tentativo di inscrivere il duplice omicidio all'interno di un regolamento di conti tra opposte fazioni del Pci, ossia moderati contro estremisti, e nella reazione del colonnello Cabras alla notizia dell'accaduto, appresa telefonicamente dall'avvocato Dal Fiume, che conosce personalmente Banfo. Recatosi prima alla Grandi Motori e poi in Prefettura da Emilio Grazioli, Cabras chiede che sia messa immediatamente una taglia sugli autori dell'azione, concordata in 100 mila lire. Provvedimento reso tanto più urgente se si considera che alla Grandi Motori entrata in sciopero circola già la voce che il mandante delle due esecuzioni sia lo stesso Cabras.
Il giorno prima, infatti, in ottemperanza alle disposizioni del questore, egli si era recato personalmente nello stabilimento per far cessare la protesta e soprattutto per impedire agli operai di abbandonare il posto di lavoro per sfilare in corteo.
In quella occasione, Banfo aveva preso coraggiosamente la parola per ricordare al colonnello le ragioni dello sciopero.
Durante il colloquio con Cabras, Grazioli si rende subito conto che la forte valenza simbolica dell'episodio attira un odio e un desiderio di vendetta che non distinguono certo fra apparati dello Stato e partito, sul quale - forse - si concentrano già i suoi sospetti. E anche se la situazione sta ormai precipitando, egli tenta di trovare rapidamente i colpevoli ordinando sia alla Polizia repubblicana, sia all'Upi della Gnr di avviare le indagini con priorità assoluta".
Articolo "La Stampa" del 20 aprile 1945 che attribuisce l'assassioni di Banfo ai comunisti.
Qualche giorno dopo le voci vengono ufficialmente formalizzate da un manifesto affisso clandestinamente dal Cln: «Agli innumerevoli assassinii compiuti dai fascisti un altro se ne aggiunge, orrendo, freddamente perpetrato, freddamente compiuto. La vittima: l'operaio comunista Antonio Banfo, purissima figura di rappresentante della classe operaia torinese: l'assassino: il colonnello Cabras, tristo figuro di fascista dalle mani lorde di sangue. [ ... ] Quello di Antonio Banfo è un cadavere che fa paura: è un cadavere del quale non ci si può sbarazzare. Banfo aveva parlato con la voce di duecentomila operai torinesi. [ ... ] Egli è l'eroe del 18 aprile, l'eroe di questa grande giornata in cui tutto il popolo compatto è disceso in lotta contro il terrore e la fame. L'assassino Cabras morrà. Egli sarà raggiunto dall'implacabile giustizia popolare. Il suo nome sarà per sempre nome di infamia»
Il colonnello Cabras, per parte sua, prova a contrastare pubblicamente le voci che lo riguardano recandosi in visita dalla famiglia Banfo - come ricorda la figlia Francesca - per ribadire che «lui non era il mandante dell'assassinio e che non c'entrava niente».
La notizia del grave episodio raggiunge intanto anche il federale Solaro, che certamente immagina da dove provengano gli assassini dei due operai. Averli ammazzati nello stesso luogo in cui qualche giorno prima una squadra "segreta" ha ucciso a mitragliate altri quattro antifascisti appare come una vera e propria firma. Pertanto, similmente ai rappresentanti torinesi del potere statale, anche il commissario federale si muove con grande rapidità per allontanare da sé e soprattutto dal partito ogni possibile sospetto, provvedendo ad inviare «due camerati mutilati di guerra [per] portare la sua parola di solidarietà e di conforto alle famiglie del Banfo e del Melis».
Le indagini per individuare gli esecutori materiali del crimine vengono in tanto condotte a ritmo serrato. Nell'ottica dei rappresentanti torinesi del potere statale l'arresto dei colpevoli può servire certamente a scaricare la rabbia popolare mettendo a tacere le voci, ormai ampiamente circolanti all'interno della comunità e già riprese dai manifesti affissi clandestinamente, che accusano del delitto il colonnello Cabras.
Leggi l'interrogatorio di Giovanni Cabras (.pdf)
Occorre insomma evitare di giungere all'insurrezione con il pesante macigno delle accuse che la Resistenza rivolge da alcuni giorni pubblicamente e indistintamente tanto al partito quanto agli apparati statali. Se si considera ciò che è accaduto nell'ultimo anno e mezzo, la preoccupazione di Grazioli e Cabras di distinguere la propria posizione da quella del Pfr-Bn riflette abbastanza bene il livello di completa estraniazione dalla realtà ormai raggiunto dall'intera compagine della Rsi. L'uccisione di Banfo e di Melis non viene affatto percepita come una nuova tappa all'interno di una lunga e sistematica escalation di violenza contro la comunità, condotta sia pure in forme diverse da Stato e partito, ma appare come un qualcosa di estraneo alla dimensione della guerra civile, una sorta di eccesso che potrebbe compromettere un presunto equilibrio e determinare gravi conseguenze per tutti.
L'impegno del maresciallo della Gnr Romolo Brancaleoni, comandante di uno dei nuclei dell'Upi, permette di arrivare alla rapida conclusione delle indagini e alla richiesta di autorizzazione per «il fermo del Dechiffre Tullio allo scopo di bene interrogarlo, e vedere di accertare eventuali sue responsabilità». Ma il tempo è ormai scaduto: è il 24 aprile 1945.
I sospetti degli stessi investigatori fascisti individuarono i colpevoli nei componenti di una squadra speciale della Federazione comandata da Tullio Dechiffre (Leggi a sua scheda), sia per le modalità (era solito presentarsi con una falsa tessera di partigiano), per il luogo (lo stesso usato due giorni prima per 'giustiziare' quattro antifascisti) e per l'abitudine di effettuare autonomamente, senza nessuna copertura giuridica, questo tipo di incursioni e di esecuzioni notturne.
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