Atlante di Torino
I teatri cittadini nel 1928
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Il Teatro Regio
Costruito nel 1738 su disegni di Benedetto Alfieri, venne inaugurato con solennità nel 1741, restaurato a più riprese come sala, rinnovato totalmente come palcoscenico con il pretesto della rappresentazione del Nerone di Arrigo Boito, il massimo teatro torinese conserva immutato il prestigio che ebbe nel passato.
È un teatro fastoso come sala, imponente come palcoscenico. Le gallerie che hanno sostituito i due estremi ordini di palchi per consentire una maggiore affluenza di pubblico, non ne hanno guastato l'armonia architettonica; non venne turbata la acusticità dalle innovazioni fatte sul palcoscenico.
L'apertura del Regio per la grande stagione lirica invernale, costituisce un avvenimento di cui parla tutta la città, anche perchè è rimasto l'unico teatro nel quale i torinesi non vanno se non preparati. È buona cosa. Il rispetto alla forma e la disciplina degli spettacoli, mantengono all'Istituto la sua distinzione; questo lo sente anche il popolino che gremisce la piccionaia; popolino per modo di dire, perchè c'è gente nobile anche su in alto, gente che ha buone maniere e ingegno da vendere. Stretto nelle gallerie, pigiato nel lubbione, il popolino guarda al palcoscenico con rispetto ed alla sala con reverenza. E vede sul palcoscenico quel mondo immaginario nel quale desidererebbe di vivere e nella sala l'anticamera di un qualche palazzo reale; e ne ha un doppio godimento.
La sala del Regio presenta sempre, per dirla cronisticamente, un magnifico colpo d'occhio. Certo non è più quella di un tempo. Guardando ai palchi si ritrovano ancora i vecchi nomi della gloriosa aristocrazia piemontese (buona razza che ha rinunciato ai suoi privilegi per devozione al suo Re e amore al suo Paese), ma sono pochi questi in confronto agli altri, ai rappresentanti della aristocrazia nuova.
Gli uomini del passato rappresentano la minoranza, ma sono essi però che dànno tono; i nuovi li assecondano sostituendo lo sfarzo allo stile. E un po' di illusione permane. Altra cosa. indubbiamente doveva essere il Regio quando Torino era la capitale ed il teatro massimo era come un salone della Reggia ed il Re vi faceva la sua comparsa circondato dalla sua Corte. Ho l'ccasione di vedere un ventaglio che, tenne tra le mani una principessa di Casa Savoia alla vigilia delle nozze in una serata di gala. Per evitare alla Principessa il fastidio di continui appelli alla dama ed al cavaliere d'onore, sul ventaglio era prospettata l'assegnazione dei palchi. Una meraviglia. La costellazione di tutte le grandi Casate subalpine. Tutto il Piemonte con i suoi monti, le sue valli, le sue pianure! Dieci secoli di storia in una visione panoramica.
Privato del fasto sovrano, non più reggia, fu tempio; tempio dell'arte; di qui l'immutato segno di rispetto. Deviazioni vi furono, ma poche e quasi sempre giustificate da particolari circostanze. Nel complesso la gestione municipale non fu inferiore a quella regia e il titolo che oggi gli si dà di secondo teatro lirico d'Italia è meritato. Per la comprensione del pubblico e per il tono degli spettacoli. Aperto ad ogni novità, non dimentico del passato.
Il Teatro di Torino ex Scribe
Tra i teatri torinesi d'oggi: il Teatro di Torino (via Verdi 29) tiene il secondo posto per la eleganza della sala, una fra le più belle d'Italia per la modernità della attrezzatura scenica, non inferiore a quelle della Scala e del Regio, per l'internazionalità degli spettacoli e per la forma di gestione dalla quale è escluso ogni carattere speculativo.
Era il teatro più freddo ed abbandonato della nostra città; l'avv. Riccardo Gualino, mecenate intelligente e prezioso, ne ha fatto il teatro più signorile ed ospitale. Il Regio è un salone, tutto stucchi, oro, tappezzerie a colori vivaci che accendono le fantasie; il Torino è un salotto in cui l'oro, i cristalli, le sete, tutto è a tinte morbide e grigie; la mente riposa e lo spettacolo prende forma di sogno.
È difficile ritrovare sotto la decorazione nuova il vecchio teatro Scribe, teatro famoso un tempo, aperto ai comici nostri ed ai comici francesi, più a questi che a quelli, e poi precipitato nella più triste decadenza e nel più umiliante squallore.
Le linee architettoniche sono quelle stesse ideate dall'architetto Bollati nel I852, ma tutto è stato rinnovato: il foyer, le scale, i corridoi, i palchi, le gallerie, il palcoscenico, i servizi, tutto, anche l'ingresso.
Il palcoscenico, che era un nido di tarli, desolante come ingresso, povero di attrezzatura. privo di comodità, è stato totalmente trasformato. Gli artisti trovano oggi nei camerini tutti i conforts, gli scenografi, macchinari e luce tale da accontentare il più esigente dei direttori.
Nella sala tutto è soffice, tutto è morbido; nei foyers, nei palchi si nota tale una ricerca di elegante semplicità da far desiderare qualche cosa di banale per averne un urto. La sala è illuminata dall'alto, e ciò facilita il raccoglimento; funziona un riscaldamento perfetto; il velario si apre e si chiude senza che risulti la benchè minima alterazione di temperatura.
Insisto sul riscaldamento del teatro non senza motivo. Perchè sono persuaso che la principale. ragione per cui i torinesi avevano abbandonato lo Scribe, pur riconoscendo che era fra i migliori della città e adattatissimo per la prosa, sta proprio nel fatto che vi soffiavano continuamente tali correnti d'aria da intirizzire.
Il locatario, Umberto Fiandra, ad ogni nuovo spettacolo, si affannava a persuadere il pubblico che il teatro era « convenientemente riscaldato», ma il pubblico sapeva per esperienza che anche a primavera avanzata allo Scribe era bene andarci col paletot spesso. D'inverno era consigliabile lo scaldino.
Per ovviare a questo grave inconveniente, gli ingegneri del l'avv. Gualino non hanno avuto poco da fare, ma hanno trovata la soluzione perfetta. Così come hanno risolto il problema di conservare quanto di artistico c'era nel teatro, facendone una cosa nuova.
La decadenza era completa. Gli stessi veglioni carnevaleschi che avevano dato allo Scribe la popolarità, tanto da farne la più ricercata tra le attrattive del Carnevale di Torino, erano diventati anch'essi una miseria. Non più oro ma orpelli; non più sete ma stracci; non più maschere eleganti, che potevano dare la illusione dell'avventura, ma goffi travestimenti di umili pedine da marciapiede.
La storia di questo teatro pareva definitivamente chiusa, tanto che i torinesi ritenevano non lontano il giorno in cui avrebbe subìto la stessa sorte del Gerbino, tanto ricco di fasti; del Nazionale, anch'esso non deserto di care memorie, e sarebbe stato trasformato in sala esposizione o in salone cinematografico. L'avv. Gualino ha avuto misericordia dell'agonizzante e con encomiabile larghezza lo ha fatto rinascere. E ha donato alla città un altro teatro che la onora.
Teatro d'arte, teatro di eccezione. Due anni di attività consentono il giudizio più lusinghiero. Si sono avuti al teatro degli spettacoli di alto interesse artistico; sono comparsi sul suo palcoscenico attori che nessuno pensava a far conoscere e che meritavano di essere conosciuti. Il pubblico non sempre ha risposto al richiamo come sarebbe stato desiderabile, per un senso di diffidenza che non è stato sgombrato che a sprazzi. Bisogna che i dirigenti del teatro si persuadano che l'arte non è un giuoco per raffinati ed il teatro vuole larghe correnti comunicative.
Vittorio Emanuele
Dalla stessa sua forma architettonica il Teatro Vittorio Emanuele (in via Rossini 15) ha avuto assegnato un compito: quello di essere sede degli spettacoli equestri. Tale genere di spettacoli erano molto in voga nell'epoca in cui il Vittorio venne ideato e costruito: 1856.
Il Vittorio non doveva avere un palcoscenico, ma il desiderio di dotare la città di un teatro popolare capace di un migliaio di spettatori, fece sì che gli ideatori pensassero ad aprire una delle pareti e fare di essa la cornice di una vasta scena. E si verificò un prodigio: l'imponente teatro si rivelò acustico come nessun altro teatro torinese. Così gli spettacoli equestri si alternarono con le rappresentazioni liriche spettacolose e con i grandi concerti orchestrali.
Il Vittorio ebbe annate d'oro, poi subì un lungo periodo di decadenza e di miseria; oggi, rinnovato, abbellito, risorge.
Fra i teatri torinesi il Vittorio è quelle che offre ad un'impresa maggiori possibilità e al pubblico dà la sicurezza di trovare, anche all'ultima ora, un posto comodo da sedere se non da vedere.
Quello della visibilità è un inconveniente grave, presentemente è dato come risolto, ma non potrà mai esserlo del tutto per la forma della sala. Piccolo inconveniente però, perchè senza: prendersi un torcicollo, qualunque sia il posto che si occupa, un buon terzo del palcoscenico lo si vede sempre. Ci sono altri teatri in cui chi arriva tardi è molto se riesce a scoprire la testa degli attori e un decimo dello scenario. Il Vittorio, affollato, costituisce uno spettacolo per se stesso. Le gradinate sono così ben disposte, così vasta è la platea, che con una occhiata si abbraccia tutto il teatro. Gremito di bimbi è una meravigliosa corbeille di fiori; aristocraticamente affollato, è un diadema imperiale. Molte adunate, degne di ricordo, tenute al Vittorio, mi vengono alla memoria e mi suggeriscono le imagini: Edmondo De Amicis che ragiona commosso con gli scolari della città adunati a festa; il Duca degli Abruzzi che racconta al fiore della nobiltà italiana la sua ascensione al Ruvenzori; D'Annunzio che esalta in una imponente raccolta di giovani la gioia del volo; l'onorevole Raimondo che balbetta l'elogio dell'avvocato, smarrito lui, oratore di grido, per l'imponenza della folla raccolta nel teatro.
Serate memorabili, degne di storia non meno delle grandiose manifestazioni benefiche che si svolsero in questo teatro e alle quali parteciparono con spontanea gara di generosità i maggiori artisti del teatro italiano.
Carignano il teatro aristocratico
Al Carignano (nella piazza omonima) pare ci si riu nisca per conversare, si è in un salotto in cui ognuno trova il suo cantuccio e si acconcia per benino; all' Alfieri si è all'aperto o quasi e ci si vedi' tutti.
Nell'architettura il Carignano ricalca il Regio in forma ridotta. Lo ideò lo stesso architetto Alfieri che costruì il Regio nel 1752; incendiato e ricostruito nel 1787, rinnovato nel 1885, dopo 176 anni di vita, è ancora oggi quello che era quando fu inaugurato.
Un bel teatro settecentesco. Oro antico, tappezzerie consumate, ombre discrete, luci velate. Il palcoscenico è modesto, l'attrezzatura primitiva, l'illuminazione limitata. Inadatto per gli spettacoli a grandi masse, forma la cornice ideale per il melodramma giocoso e la commedia da salotto. Dico questo pur sapendo che nel passato si ebbero al Carignano degli spettacoli con masse corali degni di lode e vi recitarono tragedie di Shakespeare e di Alfieri artisti dalla voce tonante come Tommaso Salvini e Giovanni Emanuel.
Alfieri, teatro popolare
L'Alfieri, creato nel 1857 dall'architetto Panizza, è stato, in poco più di settant'anni di vita, tre volte devastato: due volte fu investito dal fuoco e una volta demolito. Nelle tre ricostruzioni però, la primitiva linea architettonica è stata conservata, e fu un bene. Non si può immaginare una più felice disposizione di teatro popolare. Il palcoscenico è corto, stretti sono i fianchi, l'attrezzatura è povera, l'illuminazione scarsa (noto fra parentesi che a questi inconvenienti si sta rimediando con la ricostruzione in corso), ma platea e galleria hanno tale spaziosità, che il pubblico ci si trova bene. E lo spettacolo è, come in nessun altro teatro, vera letizia.
L'eredità del Gerbino
Alfieri e Carignano hanno raccolto e spartito. l'eredità dello scomparso Teatro Gerbino (era in contrada di Santa Barbara- corsa Regina Margherita), un'eredità che non ha mutata l'attività dei due teatri, ma ha semplicemente accresciuto il loro patrimonio. Del Carignano sta scrivendo in questi giorni la storia Alfredo Telluccini. Sarà un libro indubbia mente interessante; nel Carignano non solo si compendiano due secoli di storia dell'arte italiana, ma si trovano molti elementi dell'altra storia, quella più grande, che compendia tutta la vita del nostro popolo con i suoi tormenti, i suoi entusiasmi, le sue battaglie, le sue rinunzie per la grandezza del nostro Paese. La nuova storia d'Italia, materiata di sacrificio e di eroismo, è tutta segnata da fiammate, e non poche scintille di tali incendi si sprigionarono da questo vecchio teatro ove poeti ed attori seppero essere i tribuni e i paladini del risorgimento nazionale.
Ma anche restando nei limiti dell' arte, quanta messe di gloria fu raccolta al Carignano! I commediografi vi trovarono i più ardenti trionfi o le condanne più clamorose, gli attori il fiasco o la fama. Qui si rivelò e trionfò, per non parlare di altri, Eleonora Duse, luce destinata a restare sempre accesa nel firmamento teatrale, perchè l'arte non può parlare che con la sua voce.
L'Alfieri ebbe un compito più modesto. Le carriere che al Carignano ebbero la consacrazione, l'Alfieri le popolarizzò. E tanto donò di gloria il Carignano quanto l'Alfieri di quattrini.
Uragani di applausi e tempeste di fischi.
Lo sanno i maggiori e i minori, quelli ancora viventi e quelli già dimenticati, i saggi e gli innovatori: Praga, Giacosa, Rovetti, Bracco, Giacomo Antonio Tricerri e più giù sino a Marinetti. Serate indi menticabili nelle quali la combattività fu sempre data dagli studenti, che prediligono l'Alfieri perchè si muovono in libertà, così come i padri e gli avi prediligevano il Gerbino, che consideravano come casa loro.
Simpatico teatro il Gerbino! Per molti anni fu compreso fra i maggiori teatri di prosa italiani per l'appassionato fervore, la severità e indipendenza di giudizio del pubblico. Un'ultima luce di gloria la ebbe nei due anni (1898-1899) in cui, diretto da Domenico Lanza, si chiamò Teatro d'arte. In questi due anni i torinesi assistettero ad interpretazioni mirabili ed ebbero due grandi gioie: udirono il canto del cigno di Adelaide Ristori e ritrovarono, in pienezza d'arte, Giacinta Pezzana.
Politeama Chiarella
Il Politeama Chiarella (in via Principe Tommaso 8), il più giovane fra i teatri torinesi, non ha ancora una storia e non credo potrà averla, perchè manca di carattere: vuole essere un teatro aristocratico, e non lo è, e d'altra parte, per diventare un teatro popolare (e lo dovrebbe, data la sua ubicazione), manca della qualità indispensabile: la visibilità. Il pubblico accorre al Chiarella se lo spettacolo lo merita sul serio, ma non lo ama. Giovanni ed Achille Chiarella lo idearono per dedicarlo al padre, Daniele, un uomo di teatro che meriterebbe di trovare chi ne raccontasse la modesta vita operosa. Inaugurato nel 1906, si è inserito tra gli altri, ma senza brillare. Nei pochi anni di attività si sono avuti in questo teatro degli ottimi spettacoli lirici, delle buone stagioni di prosa, delle interessanti serate di varietà, ma non si è formato un pubblico. Il pubblico varia secondo i generi, ma non lascia sedimento. È così fatto che gli spettatori non si vedono e non possono familiarizzare.
Teatro Balbo
Il Teatro Balbo (via Andrea Doria 15 ), costruito nel 1856, ricostruito nel 1863, rinnovato nel 1889, ridipinto nel 1907, appartiene come sala e come palcoscenico al tipo dell'Alfieri. Ogni recita è come una festa in famiglia. Assai più che ogni altro teatro il Balbo ha un suo pubblico, un pubblico che ama l'opera popolare e l'operetta. L'operetta vi trionfò nei suoi migliori anni. Giulio Marchetti, Luigi Maresca, Ciro Scognamiglio, Cesare Gravina raccolsero in questo teatro messe di applausi e di quattrini. Passato tramontato. Vivo nel ricordo, il Balbo lo è oggi solo per una grande, indimenticabile serata che rappresentò il ritorno alle scene di Eleonora Duse. Il popolare teatro quella sera parve rinnovato, e non erano state poste che poche piante nel foyer e nella sala. Tutto brillò di luce nuova.
D'Angennes
Il
D'Angennes (via Principe Amedeo 24), teatro minuscolo di stile settecentesco, fu nel passato il teatro francese per eccellenza; oggi, delizia dei bimbi, vi trionfa Gianduja. La famiglia Lupi, che ha la proprietà e gestione del teatro, è una vecchia famiglia di marionettisti, ma dai nuovi tempi è uscita disorientata. Le fiabe, che furono pregio del loro teatro, non le sentono più; nella satira, origine della maschera di Gianduja, si sono fatti municipali. Il tempo in cui Torino era capitale è Iontano.
Rossini
Il Rossini (via Po 28), caratteristico p e r la sua forma, quattro volte ribattezzato, ha trovato per la vecchiaia un nome illustre da mettere sul frontone. Ma è l'unico segno di vera arte che gli è rimasto. Non se ne adonti Mario Casaleggio, che pure dimostra tanta volontà di fare e di fare bene, ma è così. Il teatro piemontese, come già ebbe a dire nel suo studio il Molineri, è tramontato. Ha avuto una sua funzione patriottica e l'ha assolta superbamente; aveva per còmpito il rivelare un piccolo mondo. il nostro mondo, gente povera ma ricca di ideali, e lo ha fatto.
Permane la memoria di qualche autore degno: Givatti, Bersezio, Pietracqua, Mario Leoni, questo più di ogni altro, perchè più vicino a noi e popo lare; resta il ricordo di qualche attore insigne, Toselli il creatore, Gemelli, Vaser, Milone, Testa, i continuatori; resta una raccolta di tipi e di figure che possono servire alla ricostruzione di un'epoca ed alla rivelazione del nostro carattere paesano.
Che si vuole di più? Se una rinascita ha da aversi, bisogna la si cerchi in forme nuove e nuove idealità. Inutile ripetere oggi quello che fu fatto, e fatto bene, in passato.
Liberamente tratto da Gigi Michelotti - Torino 1928 - Guida della città attraverso i Tempi, le Opere, gli Uomini.
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