Atlante di Torino
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La sommossa dell'agosto 1917
La mattina di martedi 22 agosto 1917 il pane viene a mancare praticamente in tutta la città, proprio quando si apprende che tra la notte precedente e la giornata sono state effettuate consegne di farina per coprire provvisoriamente il fabbisogno. E’ la scintilla che scatena i moti che si trasformano in tumulti violentissimi.
Alle 9 di mattina il prefetto invia un telegramma a Roma preannunciando il peggio nonostante la città sia ancora apparentemente calma, rinnovando la richiesta che dai centri sbarchi arrivi il residuo quantitativo di grano ancora dovuto in dotazione alla provincia.
Aggiunge: «Un ritardo può avere conseguenze incalcolabili».
Il prefetto Verdinois testimonierà al processo che, a mezzogiorno del 22 agosto 1917, tutte le panetterie erano rifornite di farina: «Però disgraziatamente, le dimostrazioni erano già degenerate in tumulti ... »
Ma è ormai tardi: il fabbisogno si tramuta immediatamente in moto politico. Dopo l'interruzione del mezzogiorno, del 22 agosto, gli operai non vogliono riprendere il lavoro in due stabilimenti: le Officine Diatto-Frejus e la Proiettili Arsenale di via Caserta: poi sarà la volta delle operaie del Fabbricone di Borgo Dora.
Preziosa è a questo punto, la testimonianza di Mario Montagnana, operaio alle officine Diatto, quelle da cui si avvia lo sciopero.
Invece di entrare in fabbrica, - scrive nei suoi ricordi, - cominciammo a tumultuare davanti al cancello.
«Non abbiamo mangiato. Non possiamo lavorare. Vogliamo pane!»
Il padrone dello stabilimento, il cavalier Pietro Diatto, preoccupatissimo, si presentò egli stesso agli operai, tutto latte e miele:
«Avete ragione, avete ragione. Come si fa a lavorare quando non si è mangiato? Telefonerò subito alla sussistenza militare affinché mandino immediatamente un camion di pane. Però entrate in fabbrica e non fate sciocchezze. Ve lo dico per il vostro bene e per il bene delle vostre famiglie».
Gli operai tacquero un istante. Proprio solo un istante, si guardarono negli occhi, quasi per consultarsi tacitamente e poi, tutti assieme, ripresero a gridare:
«Ce ne infischiamo del pane! Vogliamo la pace! Abbasso i pescicani! Abbasso la guerra! »
E abbandonarono in massa l'officina, avviandosi chi verso il centro della città, alla Camera del Lavoro, e chi verso altri stabilimenti, per invitare gli operai ad unirsi allo sciopero '.
Alla Proiettili, ad esempio, arrivano due camions di pane. La folla se ne impadronisce, mangia, ma non rientra al lavoro. È presto invocata dagli operai più decisi la strada di una dimostrazione politica.
Mentre «staccano» dal lavoro nel corso del pomeriggio migliaia e migliaia di operai - tanto che tra le 16 e le 17 sono fermi praticamente tutti i grandi stabilimenti - a cominciare dai 2000 operai delle officine ferroviarie di Borgo San Paolo.
Una considerevole folla di lavoratori e lavoratrici si mette in marcia verso la Camera del Lavoro.
Ben presto, - assicura il cronista anonimo del «Grido del Popolo» in una rievocazione fatta subito dopo la rivolta, - corso Siccardi fu piena di capannelli di persone che discutevano animatamente. Un comizio è improvvisato nel salone del primo piano che i ferrovieri, qui riuniti a congresso nazionale, pongono a disposizione della folla, ritirandosi nella sala dell'organizzazione tipografica.
Sono le ore 15,30. Secondo i calcoli del Prefetto 800 persone sono entrate nel palazzo, mentre fuori sostano circa milleduecento a cui si aggiungono presto i 2000 operai delle officine ferroviarie, giunti in corteo.
I dirigenti sindacali sono chiaramente presi alla sprovvista, come le autorità del resto, dalla piega degli avvenimenti. Il segretario della Camera del Lavoro Zaverio D'Alberto - è appena rientrato da un viaggio a Milano - si reca al vicino commissariato di P.S. per chiedere, pare, il permesso di parlare alla folla dal balcone della Camera del Lavoro, ma è arrestato «per misura preventiva», non appena uscito dal palazzo. Da altri sindacalisti viene comunque detto agli operai di andarsene, di «tornare più tardi per sentire nuove notizie sulla situazione alimentare e per ricevere direttive» .
Mentre veniva telegrafato all'onorevole Morgari, a Roma e poi a Milano, di accorrere immediatamente a Torino, Bruno Buozzi si recava dal prefetto «perché consentisse a lasciarci parlare la sera agli operai: ci disse, il prefetto, che ormai il pane c'era e che avrebbe visto».
Il dirigente della Fiom affermerà poi che, nel tardo pomeriggio, «il questore aveva preso la mano al prefetto». Il primo infatti decide di chiudere la Camera del Lavoro senza preavvisare il secondo.
Buozzi per questo, protesterà con Verdinois. «Questi promette di fargli riaprire la sede per poter consigliare gli operai a tornare al lavoro, ma nel frattempo in piazza Solferino avvenivano le cariche della polizia e non si poté fare più nulla».
II delegato di P.S. affermerà che verso le 13 «quando si era già in piena rivolta, e le turbe minacciose di operai percorrevano già la città gridando: "Evviva la rivoluzione!" "Evviva Lenin!", devastando i tram e iniziando la costruzione di barricate, al signor prefetto che chiedeva il mio parere sul comizio che le associazioni economiche volevano tenere la sera per consigliare gli operai a riprendere il lavoro, espressi il convincimento che assentire a tale grottesca richiesta equivaleva a un atto di sedizione che avrebbe portato a più gravi conseguenze. II comm. Verdinois fu infatti del mio parere».
L'inizio della sommossa.
Infatti, il pomeriggio del 22 agosto non trascorre certo calmo anche se, qua e là, avvengono distribuzioni di pane «ancora caldo» alla popolazione. Il servizio tranviario cessa completamente. Alcune squadre di operaie e di massaie si formano nei rioni popolari e vanno in corteo al municipio. Una delegazione è ricevuta dal sindaco, il barone Usseglio. Avute assicurazioni sul rifornimento della farina, la delegazione riferisce sul colloquio alla folla in attesa dinanzi al palazzo comunale.
Ma qui scoppiano i primi più gravi incidenti.
Si mangino biscotti!
Da più fonti operaie si racconta un curioso episodio che pare rinnovare l'atmosfera parigina dell’89, addirittura una famosa battuta di Maria Antonietta: una lussuosa automobile, proveniente da via Milano, si trovò improvvisamente incuneata nella folla e impossibilitata a proseguire. Di qui proteste da chi vi era sopra e richiesta di spiegazioni.
Pare che dall'auto mobile si sia esclamato: «Tanto chiasso per del pane?
Ma se non c'è pane si mangino biscotti!»
Questa frase, vera o no che fosse, pronunciata o meno, fu come la scintilla che dà fuoco alle polveri. Dalla folla partirono grida: «Allora mangeremo i biscotti».
Il primo negozio di pasticceria che si trovò vicino, il Viola in via Milano, in un attimo fu invaso dalla folla furente e saccheggiato completamente. Un camion, arrivato in quel momento, carico di scatole di biscotti, fu preso d'assalito. Dalla folla partirono grida: «Questa volta i biscotti li mangiamo anche noi, non solo i signori!» «Biscotti adesso, non più pane nero».
I saccheggi si allargano rapidamente a vari rioni, sono assaliti negozi di salumeria, di trippai, di calzoleria; la polizia interviene qua e là; ma è impotente a frenare i tumulti; l'esercito le fornisce nella giornata un aiuto scarsissimo. Intanto, nel tardo pomeriggio, si riunisce il consiglio comunale. Tutti i gruppi, attraverso la voce di vari consiglieri, si abbandonano ad aspre requisitorie contro il governo che ha tutte le responsabilità del mancato rifornimento di pane alla città. È votato all'unanimità un ordine del giorno proposto dal socialista Garizio, che deplora appunto l'insensibilità governativa e «confida in una energica condotta della Giunta per impedire si riproduca l'attuale situazione» .
Il sindaco cerca di tranquillizzare il turbolento Consiglio rammentando che il 21 pomeriggio e la notte successiva sono stati distribuiti 2100 quintali di farina mentre in giornata si sta provvedendo alla consegna ai fornai di altri 1500 quintali.
«Con questi provvedimenti non dovrebbe più verificarsi da domani alcuna chiusura di panetteria». Dopodiché il barone Usseglio lascia addirittura la città, forse per dimostrare che non ci sono motivi di eccessivo allarme. Del resto, che non ci si renda conto come ormai la marea della ribellione sia incontenibile è confermato da un convegno che in serata si tiene in casa di Romita. Non ne esce alcuna deliberazione, ma solo l'impegno di tenersi in contatto con la prefettura per far riaprire la Camera del Lavoro: contatto che, a sua volta, anche il ministro Orlando ritiene utile, raccomandandolo al prefetto in un telegramma delle 19.45.
Già sappiamo però che con la sera lo stesso Buozzi è convinto che sia troppo tardi per parlare alla folla. I disordini si accendono un po' dovunque. Nel rione Vanchiglia un gruppo di dimostranti dà l'assalto alla locale caserma delle guardie civiche; tre persone vengono ferite.
Il tram della linea di Orbassano viene assalito, e sono asportati 25 sacchi di zucchero e 216 di pane.
Alla sera, - scrive iI cronista del «Grido del Popolo», in numerosi stabilimenti le squadre notturne non entrano. Cosi avvenne, tra l'altro, per gli arsenali di Borgo Dora e di Porta Nuova. Le dimostrazioni ebbero un carattere particolarmente vivace in via Garibaldi e in via Cernaia e in tutte le strade adiacenti al palazzo del popolo di corso Siccardi dove gli operai tendevano naturalmente ad arrivare.
Si comincia a sparare
Carabinieri e poliziotti cominciarono a sparare senza riguardi. Una prima barricata fu costruita in via Bertola con assi di ponti di una vicina casa in costruzione e con cancellate di ferro tolte da un vicino giardino.
Al mattino del giovedì 23 agosto appariranno chiarissimi i due elementi caratteristici dei «fatti»:
1) nonostante le panetterie funzionino regolarmente il moto si estende, è un moto di indole politica;
2) l'agitazione ha un carattere del tutto spontaneo.
Cerchiamo di ricostruire le varie fasi ora per ora, sulla scorta, vagliata, di varie testimonianze; da questo momento i giornali torinesi tacciono; imbiancata completamente dalla censura è la pagina dell' «Avanti!»; privi di notizie su quanto va accadendo anche gli altri fogli.
Per quanto nessun ordine di sciopero sia giunto, le fabbriche non accolgono che scarsi gruppi di operai al mattino. Nei vari borghi della periferia picchetti di lavoratori stazionano dinanzi ai cancelli: in qualche caso, come alla Fiat centro, gran parte degli operai entra nell'officina ma ne esce subito dopo su invito di quanti sono rimasti fuori. Il particolare, riferito dal prefetto, è sintomatico dello sviluppo della sommossa. È chiara, in essa, una funzione di stimolo assunta dalle fazioni operaie più decise, che trascinano anche quelle più incerte e riluttanti. Anche nelle ore e nei giorni seguenti ci saranno queste differenziazioni notevoli. In ogni caso, lo sciopero delle prime ore del mattino si rivela pressoché totale nelle fabbriche principali, tanto che già alle 8,30 Verdinois si reca dal generale Sartirana per pregare l'autorità militare di assumere la tutela dell'ordine pubblico. Un testimone al processo del 1918, l'ex sindaco di Torino Teofilo Rossi, riferirà che Sartirana avrebbe esclamato: «Si dovrebbe pensare prima alla questione del pane e non rivolgersi a me troppo tardi. Mi ripugna dare del piombo a chi domanda del pane».
E' dal primo pomeriggio del 23 agosto, tuttavia, che i poteri pubblici passano all'esercito.
Nella mattinata i reparti di truppa e le forze di polizia si sono già trovate impegnate a far fronte, in vari punti della città, alla sommossa che cresce.
Il centro resta relativamente tranquillo (relativamente, poiché un corteo di dimostranti irrompe in piazza Carlo Felice e - come ormai è una tradizione! - infrange i vetri del caffè Ligure a colpi di bastone e di pietre, mentre due persone vengono ferite e cento arrestate in piazza dello Statuto).
Ma sono Borgo San Paolo, la Barriera di Nizza, la Barriera di Milano i teatri delle violenze e degli scontri più aspri.
Rotaie del tram e della ferrovia di Lanzo divelte, barricate erette in molte strade, saccheggi di negozi. Come sono costruite queste barricate, che sorgono all'incrocio tra corso Vercelli e via Carmagnola, in corso Principe Oddone all'angolo con corso Regina Margherita, e su Ponte Mosca, e che bloccano la Barriera di Milano, un grande quartiere proletario?
Secondo il cronista di «Stato operaio» quella tra corso Vercelli e via Carmagnola «barricava veramente»:
Erano stati abbattuti tutti gli alberi del corso Vercelli e dei dintorni immediati della Fiat San Giorgio e della Fiat-Brevetti e questi alberi con la loro mole e con l'intrico dei loro rami formavano un ostacolo veramente serio, tanto più che erano stati appoggiati ad alcuni carri della ferrovia Cirié-Lanzo, rovesciati di traverso sulla via.
Un'altra grande barricata era stata costruita nel corso Principe Oddone con carrozze tranviarie rovesciate e filo di ferro spinato nel quale era stata immessa la corrente elettrica.
E' evidente qui una tecnica della battaglia di strada, assai «raffinata». Preziosa è su questo punto la testimonianza di «Stato operaio» secondo il quale, in Barriera di Milano, esiste un vero centro organizzatore della sommossa, diretto da un gruppo di anarchici. Oltre che preziosa, attendibilissima è tale testimonianza, dato il carattere dei gruppi libertari torinesi e l'azione dispiegata nei mesi precedenti. Si tratta però di un fenomeno che non assume i rilievi di un'organizzazione centrale cittadina.
Incendiata la chiesa di San Bernardino
Anzi, la sommossa tende, forzatamente, a rinchiudersi nei vari rioni periferici e non avrà un suo centro motore.
In Borgo San Paolo, nella stessa mattinata avvengono alcuni dei fatti più gravi. La folla saccheggia e incendia la chiesa di San Bernardino e l'attiguo convento dei frati. L'episodio ha alcune radici lontane: l'anno precedente aveva destato grande emozione nel quartiere il fatto che due ragazzi, entrati nell'orto del convento per rubare della frutta, fossero stati percossi dai frati i quali, - scriveva Gramsci, - «li hanno sfregiati tracciando loro sul cranio il segno della croce».
Già allora una dimostrazione ostile di cinquemila persone si era avuta in piazza Peschiera dinanzi alla chiesa. I dimostranti, ora, «saldano il conto». Nell'incendio della chiesa viene distrutto un magazzino militare ospitato nei sotterranei. La polizia, giunta molto in ritardo, apre il fuoco e cadono sotto i colpi due manifestanti, tra cui una donna. Vengono operati numerosi arresti e alcuni mandati di cattura saranno spiccati in seguito; prima dell'arrivo della polizia due reparti dell'esercito vengono disarmati dai rivoltosi nei pressi della chiesa; non risulta però provata in questo caso una fraternizzazione di soldati e operai.
Saccheggiata la chiesa della Pace
Quasi contemporaneamente, anche la Chiesa della Pace alla Barriera di Milano viene invasa e saccheggiata. «Sul campanile fu issata la bandiera rossa, la cantina del parroco fu vuotata del vino e delle provviste che vi erano contenute e che furono distribuite alla folla».
Sempre nella stessa zona, due caserme delle guardie di città sono assalite: è evidente la caccia alle armi che organizzano gli animatori della rivolta. Si cerca di allargare il movimento ai paesi vicini: a Pianezza, a Collegno, a Rivoli, e a Trofarello, dove, in effetti, parte degli operai abbandona il lavoro. Senonché si tratta di iniziative del momento prese da gruppi di operai torinesi. I dirigenti socialisti non vi hanno parte. Sulla loro azione, e funzione, la mattina del 23 agosto reca alcuni particolari, sebbene non chiari. Si ha notizia di una riunione che viene tenuta nella sede centrale dell'Alleanza Cooperativa Torinese, in corso Stupinigi, a cui accorrono la maggior parte dei dirigenti politici e sindacali (esclusi l'onorevole Morgari che giunge nel pomeriggio da Roma, e l'on. Casalini che giunge in serata dalla Val d'Aosta) giovani e anziani, una trentina in tutto . Vi è - probabilmente - uno scontro tra «rigidi» e riforrnisti, gli uni peroranti una intensificazione e una organizzazione del movimento, gli altri propensi a stilare un manifesto che lo sconfessi.
Alla fine si decide di inviare messi a Milano presso la CGL e l' «Avanti! », per chiedere consiglio e invitare i compagni ad estendere ivi il moto. Ma l'invito sarà respinto. Solo Serrati parte da Milano per Torino, dove giungerà il venerdi 24, dopo un viaggio avventuroso.
Secondo quanto racconta Mario Montagnana, presente alla riunione, nessuno, né i riformisti né i «rivoluzionari» sapeva che fare, quali parole d'ordine comunicare alla massa, la quale voleva la fine del la guerra e la rivoluzione, ma non aveva la minima idea sui mezzi da adoperare per raggiungere questi obiettivi.
In attesa di consigli dalle «centrali» nazionali, si lascia, in sostanza, che il movimento abbia il suo corso spontaneo. Non molto di più dice un manifesto stampato alla macchia che porta la data del 24 agosto, ma che, evidentemente, deve essere stato stilato la sera precedente ed appare al mattino sui muri di qualche via (una copia è sequestrata in via Baretti), e che dice:
"Lavoratori torinesi, il Partito socialista e la Camera del Lavoro sono orgogliosi della prova di forza che date in questi giorni alla insipienza e alle provocazioni delle autorità. Non ascoltate coloro che vi consigliano a riprendere il lavoro. La direzione del movimento è in buone mani. Attendete le disposizioni delle vostre organizzazioni. Cercate semplicemente di evitare atti di inutili violenze, soprattutto quelle che possono limitare al popolo la possibilità di rifornirvi regolarmente di viveri".
La giornata più cruenta.
Qual è esattamente, la situazione, nel pomeriggio del 23 agosto? Si delinea, chiaramente, l'impossibilità per i rivoltosi di penetrare nel centro cittadino, che è difeso da truppe alpine, carabinieri, guardie di P.S. e da tre compagnie di allievi ufficiali del genio, in tenuta di soldati; in via Garibaldi, in piazza Statuto, in corso Vercelli avvengono scontri a fuoco, nel corso dei quali sette dimostranti sono uccisi, 37 feriti, 200 arrestati. Muore anche un sottufficiale d'artiglieria e diversi militari sono feriti. I centri della rivolta - che sta assumendo di ora in ora i caratteri d'un'insurrezione armata - restano un po' isolati ai due estremi della città, nel Borgo San Paolo e alla Barriera di Milano.
La città viene letteralmente tagliata in due per impedire agli operai di congiungere le loro forze. Lungo il corso Regina Margherita e specialmente verso il ponte Mosca (unica via per gli operai della Barriera di Milano per penetrare al centro) e al passaggio a livello di corso Regina Margherita e corso Principe Oddone, che costituisce la via obbligata per gli operai provenienti daI Borgo Vittoria, sono scaglionate la forza pubblica e reparti di truppa con l'ordine di sparare.
Qui, nella giornata del 24, la più aspra, lungo questa linea di resistenza si avranno i conflitti maggiori. Alla sera del 23 agosto il prefetto ha un lungo colloquio con l'onorevole Morgari, con Romita e con il corrispondente torinese dell'«Avanti!» Leo GaIetto.
Fino a questo momento non vi sono arresti di dirigenti. Anzi, qualcuno, fermato, viene rilasciato, dietro interessamento del sindacalista Colombina che si è recato al comando del corpo d'armata «a fare presente che se si arrestavano i dirigenti non sarebbe stato possibile arrivare alla conclusione».
Dopo il colloquio con Morgari il prefetto assicura telefonicamente al Ministero degli Interni che il deputato socialista pare animato da buone disposizioni.
Da Roma chiedono:
Domanda: La parte sana della cittadinanza comincia a manifestare segni di reazione?
Risposta: (il Prefetto): lo credo che la parte sana della cittadinanza voglia reagire in tutti i modi anche con mezzi violenti. Però si tratta di un movimento incomposto che si manifesta specialmente nelle borgate alla periferia dove la maggioranza è avversa alla guerra.
Il comandante del corpo d'armata, generale Sartirana, stabilisce, con un manifesto che «non è permesso ad alcuno di valersi dei mezzi di Iocomozione, biciclette, vetture, automobili. I pubblici esercizi devono es sere chiusi alle ore 21».
Il 24 agosto, venerdì, è la giornata che decide la sorte dell'insurrezione. Gli operai in rivolta cercano, specie la mattina, di rompere lo sbarramento frapposto ai due focolai maggiori della periferia, ma senza successo. Prima di sera la forza pubblica e l'esercito passeranno alla controffensiva.
Sarà questa, anche, la giornata più sanguinosa. Dalle otto di mattina sino aI calare della sera è un susseguirsi continuo di scontri, di episodi di lotta narrati in modi contrastanti dai due campi, separati - è il caso di dirlo - da vere barricate. I dimostranti sono poco e male armati: rivoltelle, bombe a mano, qualche fucile; l'esercito impiega mitragliatrici e tanks. Oltre che ai confini della Barriera di Milano e di San Paolo, un nuovo epicentro di scontri si forma nella Barriera di Nizza.
Qui, nella mattinata, gli insorti lanciano due bombe a mano e fanno uso di armi: sono uccisi un dimostrante e un soldato. Frattanto, rudimentali manifestini invitano i soldati a gettare le armi e a fraternizzare, mentre un altro distribuito a mano in Borgo Vanchiglia dice:
"Amici e compagni lavoratori, unitevi tutti alle barriere di Milano, Lanzo, Orbassano, ribellatevi sempre più e vedrete che vinceremo contro gli assassini e i carnefici, vi saluto! Viva i ribellatori e i rivoluzionari".
Secondo la cronaca di «Stato operaio» - sull' episodio le fonti governative tacciono.
Nella stessa mattinata del 24 un intero reparto di alpini, ricevuto l'ordine di sparare, consegnò i fucili agli operai, e questo parve il segnale che si poteva allargare la rivolta. La folla comprese che occorreva, prima di tutto, armarsi in massa. Perciò l'assalto ai negozi fu diretto verso nuovi negozi di armi.
Un negozio di armi in piazza dello Statuto fu assaltato e vuotato di tutte le armi che conteneva.
Contemporaneamente, si combatte sulle barricate di corso Ponte Mosca e il locale Commissariato di P.S. è preso d'assalto dai rivoltosi. Si giunge qui, alla fase culminante della rivolta. Rotto lo schieramento della forza pubblica una gran massa di insorti, per Porta Palazzo e via Milano, si avvia verso il centro cittadino.
L'attacco, - narra il cronista di «Stato operaio», - procede vittorioso fin quasi al centro. Se si arriva in piazza Castello dove è la Prefettura, in via Roma, dov'è la Questura, in via Cernaia dove sono le caserme, la città è presa e la rivolta - che non ha avuto né capi né direzione - ha vinto. La folla sente che può vincere e lotta con furore, con eroismo: semina le strade di morti e di feriti. Ma la riscossa della forza pubblica è terribile. Entrano in campo le auto mobili blindate e si scagliano a corsa folle per le vie gremite, scaricando le mitragliatrici all'impazzata, sulla gente che fugge, su coloro che resistono, nelle finestre delle case, nelle porte e nei negozi alla cieca.
I morti non si contano e l'attacco dei rivoltosi è respinto ancora una volta. In questo momento la folIa si spezzetta nel dedalo delle vie che stanno tra il centro e corso Regina Margherita e lungo questo corso. Cento combattimenti individuali e di piccoli gruppi hanno luogo e gli operai e le donne operaie dimostrano cento volte il loro coraggio, il loro eroismo.
Donne all'assalto dei blindati
Nel pomeriggio avvengono ancora aspri scontri in corso Regina Margherita e in corso Valdocco. Però, più che di «scontri», già si tratta di assembramenti di folla che non ha quasi più armi e colpi da sparare. Tipico al riguardo il drammatico episodio rievocato da un'operaia, nell'opuscolo già ricordato del 1928:
Uno degli ultimi e più impressionanti episodi al quale assistette chi scrive, avvenne nel corso Regina. I carri blindati entravano in azione specialmente nel tratto del corso che va da Porta Palazzo a corso Principe Oddone. I pesanti tanks si dirigevano verso il passaggio a livello dove correva voce che si fosse rifatta la barricata. Improvvisamente, un nugolo di donne sbucarono dai portoni di tutte le case, ruppero i cordoni e tagliarono la strada ai carri blindati. Questi si fermarono un momento. Ma l'ordine era di andare ad ogni costo, azionando anche le mitragliatrici. I carri si misero in moto: allora le donne si slanciarono, disarmate, all'assalto, si aggrapparono alle pesanti ruote, tentarono di arrampicarsi, supplicando i soldati di buttare le armi. I soldati non spararono, i loro volti erano rigati di sudore e di lacrime. I tanks avanzavano lentamente. Le donne non le abbandonavano. I tanks alfine dovettero arrestarsi.
La rivolta si va spegnendo.
Verso le ore 19, anche il nucleo di resistenza sovversiva più tenace, quello della barriera di Milano, viene disperso dalla forza pubblica.
Anche se la rivolta non è ancora cessata la sua potenza d'urto è ormai fiaccata, quasi tutte le barricate espugnate o abbandonate. Le prime cifre sul numero dei morti, dei feriti, degli arrestati della giornata vengono comunicate a Roma dal comando dei carabinieri:
«Complessivamente, nella giornata, dieci rivoltosi uccisi, feriti accertati negli ospedali: 27, un soldato ucciso da arma da fuoco, numerosi altri militari feriti non gravi. Finora circa milecinquecento operai arrestati».
Le vittime, assommate a quelle dei giorni precedenti, sarebbero 24, di cui tre soli militari. Dovremo più avanti riprendere il discorso su questo punto, controverso. Conviene però sin d'ora riflettere sul fatto che la proporzione dei caduti delle due parti indica la scarsezza di armi e di preparazione militare dei rivoltosi, il carattere tumultuoso della sommossa, che si polverizza in tanti piccoli episodi.
Scaturiscono qua e là mentre in altri punti della città - specie nel centro - già nel pomeriggio del 24 la calma è tornata.
Prova ne sia che dalle ore 16 alle ore 19,30 si riunisce nel palazzo del municipio il consiglio comunale, a cui partecipano i rappresentanti socialisti: anzi, Giuseppe Romita vi prende la parola per chiedere che la Casa del Popolo venga prontamente restituita alle associazioni operaie:
«1) perché quello può servire come elemento pacificatore;
2) per poter rimettere in carreggiata quegli elementi direttivi che ora sono isolati».
Le affermazioni di Romita, soprattutto la seconda, sono esatte. I dirigenti socialisti restano isolati, alcuni al centro, altri in periferia, senza contatti, senza idee precise, senza un quadro d'assieme della situazione. "lla sera, - conferma nei suoi ricordi Mario Montagnana, - ci trovavamo nei rispettivi circoli rionali, ma non facevamo alcun progetto, alcun piano per l'indomani. Di fatto non guidavamo il movimento, ma seguivamo il suo corso spontaneo":
Neppure i «rigidi» hanno contatti regolari tra loro e con i due o tre focolai più accesi della rivolta. Prova ne sia che l'indomani alcuni dei loro leaders, come del resto i membri delle CE del partito e della Camera del Lavoro, verranno arrestati ciascuno nella sua abitazione.
Ma, veniamo a questo indomani, al sabato 25 agosto, che è praticamente l'ultimo giorno della rivolta.
Lo sciopero al mattino rimane pressoché completo, in città, salvo per qualche piccolo opificio.
Del resto, come testimonia il prefetto, con questa atmosfera neppure gli imprenditori desiderano riaprire i cancelli: alla Fiat e negli stabilimenti ausiliari si temono atti di sabotaggio. La giornata si caratterizza in questo modo: non vi è quasi più una resistenza organizzata sulle barricate. Una dopo l'altra, nella notte, sono state smontate dai soldati, che pattugliano le strade più importanti ("... e durante la notte, - nota giustamente "Stato operaio" - mancando un'organizzazione del movimento gli operai andavano tutti a dormire"):
Sicché sin dal primo mattimo i «ribellatori» nelle barriere, dove l'agitazione, l'ira, la passione, sono ancora vivissime, tentano qua e là assalti a pattuglie di soldati, cercano di disarmarli, sparano le ultime cartucce. A volte è una folla di donne che sbuca da una casa o da un angolo di strada e cerca di circondare la truppa e di sottrarle le armi.
Così accade in Borgo San Paolo, verso le ore 9,30 quando ha luogo l'ultimo episodio cruento della rivolta: in via Villafranca la folla si avvicina a una pattuglia di alpini, comandata da un sottotenente. I dimostranti, secondo il prefetto, sono circa 300: «tentarono di disarmare la pattuglia, che sparò, uccidendo un borghese e ferendone una decina».
Secondo le fonti operaie i morti sarebbero stati tre o addirittura quattro. Il cronista del «Grido» scrive:
I poliziotti furono di una ferocia inaudita. Un episodio: in Borgo San Paolo un picchetto di alpini (sembra che vi fossero tra loro poliziotti travestiti) fu accolto da applausi e da inviti alla fraternizzazione da parte di un gruppo di giovani. L'ufficiale ordinò il fuoco e fu sparato a distanza di pochi passi, uccidendo quattro dimostranti e ferendone molti altri.
Comunque si sia svolto, il fatto ci dà un altro elemento di valutazione: l'insuccesso che ha il reiterato tentativo degli insorti di trascinare a manifestazioni di solidarietà i soldati. La folla canta, durante queste giornate, un ritornello divenuto poi famoso:
Prendi il fucile e gettalo (giù) per terra vogliam la pace, vogliam la pace vogliam la pace, mai vogliam la guerra!
Ma l'esortazione cade nel vuoto. Nessun documento riservato delle autorità civili e militari fa il minimo cenno a casi di fraternizzazione. Lo stesso Antonio Gramsci scriverà qualche anno appresso:
« .. Gli operai, i quali erano armati dieci volte peggio dei loro avversari, furono battuti. Invano avevano sperato nell'appoggio dei soldati: i soldati si lasciarono trarre in inganno che la rivolta fosse stata provocata dai tedeschi».
La «fratemizzazione si è quindi ridotta a qualche caso provato di disarmo, più o meno volontario, dei soldati. Nel pomeriggio del 25 agosto, ancora a San Paolo, due soldati di scorta ad un carro viveri vengono disarmati, e in Barriera di Milano, lo stesso accade a un caporale e tre soldati. Ma sono gli ultimi bagliori dell'incendio ora quasi spento.
Nel pomeriggio di sabato, - citiamo dal cronista del «Grido», - risultò evidente I'impossìbìlìtà' di continuare il movimento e la convenienza di invitare alla ripresa del lavoro. Il Comitato sorto per l'occasione che aveva il venerdì diramato l'invito di continuare nello sciopero pure astenendosi da inutili vio lenze, decideva di diffondere il seguente manifestino che trascriviamo per la documentazione:
«Sezione di Torino del Partito Socialista. Camera del Lavoro. Lavoratori torinesi!
L'insipienza del Governo Centrale, l'ignavia dell'Amministrazione cittadina e le provocazioni indicibili del potere politico locale vi hanno fatto scattare in un movimento di sciopero generale meraviglioso,forte, ammonitore ed esemplare. Scoppiato per la mancanza di pane, esso si è subito tramutato in una decisa manifestazione contro la guerra che tanti lutti ha seminato e tanto sdegno ha suscitato in ogni animo in tutti i paesi. La forza brutale dello Stato borghese, la incoscienza da parte dei proletari vestiti in divisa, la dolorosa impreparazione della nostra organizzazione ad una azione risolutiva, ci costringono a consigliarvi di ritornare lunedì al lavoro. Non è consiglio di viltà quello che vi diamo, ma di saggezza e di forza. Noi intendiamo che non solo questo grandioso movimento proletario torinese sia avvertimento serio e definitivo al Governo monarchico borghese, perché cessi questa strage inutile e inumana, ma indichi anche a tutti i proletari d'Italia e dell'Internazionale il dovere di una più intensa e decisiva preparazione. Torniamo al lavoro, o compagni, ma con la coscienza di aver compiuto un atto coraggioso, degno e fecondo. È stato sparso sangue proletario ma non invano. Salutiamo le vittime con una promessa di prossima, preparata rivincita».
Dopo la bufera
I moti insurrezionali dell'agosto 1917 possono essere considerati una delle pagine più drammatiche della prima guerra mondiale in Italia: nonostante i rigori della censura, se ne parlerà sulla stampa, presto, e per tutto il restante corso della guerra. Alcuni quesiti, sulle vittime, sulle cause, sugli strascichi e sugli effetti di quella sommossa popolare si trascineranno irrisolti nella polemica politica per molto tempo ancora. Una luce pressoché completa però si può fare oggi. Sul numero delle vittime, anzitutto. La cifra globale che ricorre concordemente nelle memorie e nelle rievocazioni dei militanti comunisti, durante il primo dopoguerra e l'emigrazione, è quella di 500 morti e di oltre 2000 feriti. Ma essa non trova riscontro in nessun documento, né nei dispacci, riservatissimi, dei comandi dei carabinieri alle autorità centrali di Roma, né negli atti processuali, né, infine, nelle statistiche del municipio. Un'analisi minuziosa condotta da Alberto Monticone - i cui risultati abbiamo potuto controllare alle stesse fonti - porta alla conclusione che i morti non hanno raggiunto la cifra di 50 e i feriti superato quella di 200. E sono cifre difficilmente confutabili, seppure è possibile che qualche vittima - di immigrati non registrati ancora, di disertori, ecc. - sia sfuggita sia alle ripetute inchieste del ministero degli Interni e dell'autorità giudiziaria sia ai registri degli ospedali sia ai prospetti dell'annuario municipale.
Un telegramma (ACS, Guerra, busta 31) del comando torinese dei Carabinieri Reali riporta che i morti «borghesi» ascendono a 38 (35 uomini e 3 donne) e i militari a 3. I feriti accertati sono 151 (dei quali 100 «borghesi», 111 operai «esonerati», 2 militi della Croce Verde, 22 guardie di città, un commissario di P.S., 11 militari, e 4 carabinieri).
I militari caduti, secondo un altro rapporto del 30 agosto 1917, furono tre e i feriti una trentina, tra cui alcuni gravissimi. La cifra dei caduti, complessiva, è probabilmente aumentata nei giorni seguenti, ma difficilmente ha superato le dieci unità, tra soldati, agenti e carabinieri.
Anche sugli arrestati si possono fornire dati precisi. Secondo una lettera del 28 novembre 1917 del Guardasigilli al neo-presidente del Consiglio Orlando risulta che gli arrestati denunciati e posti a disposizione dell'autorità giudiziaria furono in complesso 822. Di questi, 326 vennero denunciati al Pretore, e processati per direttissima (si comminarono 264 condanne, 29 assoluzioni; 33 processi risultarono «pendenti» perché gli imputati richiamati alle armi, durante quel periodo). Il procuratore del re, su 496 imputati, ne inviò al tribunale ordinario 96 per citazione diretta e dinanzi al giudice istruttore 236. All'epoca, 218 si trovavano ancora detenuti in attesa di giudizio, gli altri 18 scarcerati per mancanza di indizi, mentre dei 96 comparsi al tribunale ordinario 39 vennero condannati, 3 assolti, 11 in attesa di giudizio. Altri 43 si trovavano nella stessa condizione, in attesa di vedere risolto un conflitto di competenza tra tribunale ordinario e tribunale militare di guerra. In conclusione, i detenuti non ancora processati alla fine del '17 risultavano 229+43. Molti arrestati, pur prosciolti da capi d'imputazione, erano stati chiamati alle armi: si tratta di 182 operai, ex «esonerati», di cui 177 effettivamente partiti per la zona di guerra tra il 4 settembre e il 6 ottobre 1917 , Successivamente il numero s'accrescerà sino a 300 inquadrati in tre centurie di lavoratori per tenerli sotto controllo e isolarli dalle altre truppe'.
I processi saranno più d'uno (e non tutti verranno celebrati: quello per l'incendio della chiesa di San Bernardino verrà infatti «superato» dall'amnistia del 1919, ma uno sarà il processo centrale: quello che vedrà comparire dinanzi al tribunale militare di Torino, il 3 giugno 1918, dodici tra i maggiori dirigenti socialisti, e un anarchico, torinese, sotto la imputazione di «tradimento indiretto» (essendo caduta in istruttoria quella di tradimento, ed essendo stati prosciolti nell'aprile 1918 una ventina di coimputati, tra cui Ernesto Berra, Luigi Borghi, Tommaso Cavallo, Umberto Griseri, Enea Matta, Giuseppe Romita, Cristoforo Togliatto, Alessandro Uberti, Alfredo Vietti.
Tra il giugno e l'agosto del 1918 ebbe luogo, avanti al Tribunale Militare di Torino, un ulteriore processo che vide imputati dodici dirigenti socialisti e un anarchico. Dalle risultanze processuali emerse che la rivolta era stata spontanea e non era frutto di nessun complotto. Ciononostante, sei degli imputati (fra i quali il leader socialista Giacinto Serrati, che si era recato a Torino durante la sommossa rimanendovi però un giorno solo) furono ritenuti dal Tribunale "autori morali della sommossa" e perciò condannati a pene detentive varianti fra i tre e i sei anni.
tratto e rielaborato da: "Storia di Torino operaia e socialista" di Paolo Spriano - Einaudi, Torino 1938