Atlante di Torino


image-1105 - Palazzo Cavour
Al numero 8 della via omonima (al tempo si chiamava rue Jena) il 10 agosto nacque Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), uno degli artefici dell’unità d’Italia.
Soprannominato “gatun” (gattone) morì di malaria sempre in questo palazzo il 6 giugno. Suo padre Michele, benchè fosse stato molto compromesso col regime napoleonico, fu capo della polizia del Vicariato.
Qui venne fondato il giornale “Il Risorgimento”.
La famiglia possedeva diverse case nelle vie: Arcivescovado 11-13, Conciatori (Accademia delle Scienze) 12-14, , v. Alfieri 13-15, Finanze 10-12 (C. Battisti) e in piazza Mercato della Legna (Solferino) 5-7-9-11.


Quando la madre dei Cavour, Adele de Sellon, morì nel 1846, Augusto, che, in quanto primogenito della famiglia di Gustavo (fratello di Camillo), aveva ereditato gran parte del lascito testamentario della nonna, riparò a ciò che ai suoi occhi sembrava un’ingiustizia, lasciando allo zio una cospicua fortuna.

 

Michele Cavour, il padre
Adele De Sellon, la madre
Camillo Benso conte di Cavour

 

Camillo (il "Gatun" che nell'immagine a fianco vediamo in una caricatura del giornale satirico "Fischietto") vi rinunziò passando il denaro a Gustavo per risarcire un vecchio debito di gioco, ma volle a tutti costi conservare, in un’urna di vetro posta sotto il suo letto, l’uniforme ancora macchiata di sangue del nipote Augusto, morto nella battaglia di Goito nel maggio del 1848. Fu questa la tragedia più grande che capitò a Camillo guastando a lungo i rapporti con Gustavo, contrario alla guerra.
Camillo, invece sosteneva la necessità dell’intervento anche per evitare una diffusione delle idee repubblicane dalla Lombardia al Piemonte. Nel frattempo dal fronte Augusto, nelle lettere indirizzate ai familiari, segnalava la totale incompetenza degli ufficiali dell’esercito di Carlo Alberto e la mancanza di motivazioni della truppa. Fu allora che lo zio commentò coraggiosamente sulle pagine del Risorgimento le gravi deficienze militari segnalate dal nipote.

Cavour a 24 anni
Cavour a 28 anni
Augusto Cavour

 

image-1105 - L’uomo chiave del Risorgimento
All’inizio della sua carriera politica il suo patrimonio personale ammontava a tre milioni di lire dell’epoca, quando morì ne aveva 2 milioni e settecentomila, segno evidente che, almeno allora, con la politica non ci si arricchiva.
Giocava in borsa con alti e bassi notevoli (una volta perse 45.000 franchi e dovette intervenire il padre per coprire il buco).
Certo fu l’uomo chiave per l’ambizioso progetto risorgimentale: il principe di Metternich lo giudicò unico grande uomo politico nel panorama internazionale del tempo, commentando: “Peccato che sia dall’altra parte della barricata!”
Si dedicò alla politica solo negli ultimi dieci anni della sua vita, ma lo fece con tale passione, partecipazione e trasporto da bruciare l’energia di un’intera esistenza.
Cavour aveva un carattere forte, abbastanza ribelle, tant’è che fu mandato alla guarnigione del Forte di Bard (1831) all’imboccatura della Valle d’Aosta per punizione, perchè molto franco e, nei suoi comportamenti verso il gentil sesso, anche abbastanza licenzioso. Il giovane Camillo, comunque, riuscì anhe in quel di Bard ad allacciare una relazione con una ragazza locale, una certa Maria, rivista poi anche negli anni successivi, quando era di passaggio per la Svizzera.
Allo statista lucido e calcolatore corrispondeva, nel privato, un libertino appassionato. Suo fratello Gustavo in proposito commentò: «Non possiamo dissimulare che per trent’anni il povero Camillo non è proprio vissuto da cristiano».

Un altra grande passione era quella del gioco, con alterne fortune. Una sera di gennaio del 1834 perse, durante una festa in casa del conte Viale, l’equivalente del suo reddito di un anno.
Il suo disegno di unificare l’Italia necessitava il sovvertimento di un consolidato ordine internazionale. Per questo era disposto (e lo ammise all’armistizio di Villafranca) a usare qualunque mezzo.

Le difficoltà del progetto gli procurarono anche profondi stati di depressione: “Se non fosse per certi dubbi che mi restano sulla moralità del suicidio – scriveva nel suo diario - in verità mi libererei ben presto di questa fastidiosa esistenza”.
Un’altra volta sorpreso dal fidatissimo Castelli in un momento di profondo sconforto, alla domanda: “Devo credere che il conte di Cavour voglia disertare il campo prima della battaglia, voglia abbandonarci tutti ?” rispose abbracciandolo forte: “Stia tranquillo, affronteremmo tutto, e sempre tutti insieme..”

Per undici anni, fra alti e bassi, mantenne un rapporto con Anna Schiaffino, conosciuta nel 1830 quando a vent’anni era tenente di guarnigione a Genova. La Schiaffino era la moglie del marchese Stefano Giustiniani Campi, titolare di uno dei salotti intellettuali e mondani meglio frequentati di Genova. Anna (che Camillo chiamava “Nina”) era una donna affascinante, aveva tre figli, e il suo matrimonio era perennemente in crisi. Soffriva di nervi e il conte di Cavour non fu l’unico uomo con il quale cercò, inutilmente, di consolarsi.
Nella notte tra il 23 e il 24 aprile del 1841, Nina tenta per una terza fatale volta il suicidio, si getta dalla finestra della sua camera di Palazzo Lercari, in via Garibaldi, in coincidenza dell’anniversario del primo incontro con Cavour. Il salto di undici metri non basta a stroncare all’istante la vita di Anna che deve aspettare alcuni giorni prima di spirare. “La donna che ti amava è morta - scrive Nina nella sua ultima lettera a Cavour - ella non era bella, aveva sofferto troppo. Quel che le mancava lo sapeva meglio di te. È morta, dico, e in questo dominio della morte ha incontrato antiche rivali. Se essa ha ceduto loro la palma delle bellezza nel mondo ove i sensi vogliono essere sedotti, qui ella le supera tutte: nessuna ti ha amato come lei. Nessuna!”.
I testimoni del tempo raccontano che Cavour non provò né rimorsi né rimpianti. In quel periodo aveva un’amica assidua nella signora Emilia Nomis di Pollone.
In effetti non le fu mai fedele, né si preoccupò di nasconderle i rapporti, non occasionali, che intratteneva con le altre, come la marchesa di Castelletto.

Anna "Nina" Schiaffino
Emilia Nomis di Pollone
Melanie Waldor


La donna che gli fu più vicina negli ultimi anni fu Bianca Ronzani. Ballerina, moglie di Domenico, anche lui ballerino, mimo e poi coreografo, il quale si assunse la gestione del Regio, ma nel 1858 oberato dai debiti fuggì in America.
Secondo alcune voci, raccolte anche da uno storico autorevole come Denis Mack Smith (che dimostra però di non dargli molto credito) la Ronzani svolse anche un ruolo inconsapevole nella morte dello statista, avvelenato (e non sconfitto dalla malaria). L’ultima bevanda bevuta prima di sentirsi male, fu una bibita offerta appunto dalla Ronzani, nella sua casa in via Villa della Regina.
Probabilmente un ruolo più attivo nella morte dello statista lo ebbe il medico, il dottor Bosco, che facendogli applicare una serie di salassi non fece altro che favorirne il decesso.

Dall’amore per l’ex ballerina Bianca Ronzani alla passione per Anna Schiaffino, passò attraverso i legami con le donne più importanti: da Mélanie Waldor (1796 - 1871) poetessa moglie di un ufficiale belga, che aveva appena chiusa una relazione con Alessandro Dumas, a Hortense Allart (1801-1879) scrittrice e saggista francese che difese il libero amore e la condizione della donna, da Emilia Pollone (che aveva una casa in piazza Castello 9, ma solitamente abitava a Villa Sassi, dove attualmente c’è il ristorante) a Clementina Guasco, marchesa di Castelletto (risiedeva in via Dora Grossa 7) e molte altre.
Nonostante le costanti pressioni del padre, Cavour rimase scapolo, anche se si parlò di un suo possibile matrimonio con Costanza Scati di Belgioioso.

Melanie Waldor
Clemetina Guasco
Costanza Scati di Casaleggio


Bianca Ronzani

La parte più scabrosa del carteggio fra Cavour e la Ronzani andò perduta nel 1894, anche se qualcuno suggerisce che le lettere vennero vendute al nipote Ainardo Cavour, nominato esecutore testamentario dallo zio.

Certo è che spese parecchio denaro per comprare lettere e testimonianze delle avventure dello zio, soprattutto quelle relative a una storia con una certa Costa Ghighetti, donna di cattivissima reputazione, conosciuta in una casa malfamata di Parigi.


Costantino Nigra (uomo chiave nella politica estera, riferimento di Cavour all’ambasciata di Parigi, contatto per le comunicazioni con la contessa di Castiglione, gran maestro della Massoneria italiana, iniziò la sua carriera come segretario del ministro Massimo D’Azeglio su segnalazione di Alessandro Manzoni) aveva rintracciato a Vienna, presso un collezionista di autografi, un pacco di lettere di Cavour alla sua ultima amica che contenevano, secondo quanto Nigra confidò a Domenico Berti, «particolari del carattere più intimo, che farebbero torto alla memoria di Cavour, se conosciute e pubblicate».


Prese perciò l’iniziativa di acquistarle al prezzo di mille lire e inviarle al re Umberto I per avere l’autorizzazione a distruggerle. L’interessamento del Re era necessario perché il collezionista pretendeva oltre al compenso anche l’onorificenza di cavaliere della Corona d’Italia.

 

image-1image-1Ne seguì una corrispondenza anche con i Visconti-Venosta eredi di Cavour.
Il Re concesse il compenso e la decorazione e restituì il carteggio licenzioso a Nigra rimettendogli la decisione sul da farsi. Gli eredi ringraziarono Nigra per lo scandalo evitato e in presenza di testimoni le 24 lettere di Cavour furono date alle fiamme.

 

Vedi alcune immagini di Palazzo Cavour nel 1932


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