Atlante di Torino


LA TORINO NEL 1840
NEI RICORDI DI VITTORIO BERSEZIO - 1
° parte

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image-1Due scrittori piemontesi, di diversa sensibilità cultura ed eloquenza, vissuti alla distanza di meno d'una generazione, hanno lasciato le proprie memorie con un titolo identico: «I miei tempi ».
Angelo Brofferio le sviluppò in venti volumetti (più tre che seguirono a distanza di tempo, editi a Milano) stampati tra il 1857 e il 1861 in Torino.
Vittorio Bersezio vi si dedicò alla fine della sua vita, per le appendici della Gazzetta del Popolo nel secondo semestre del 1899.
Il suo disegno era di dividere le Memorie in due parti: la prima fino alla ‘fatal Novara’ (1849), battaglia a cui partecipò; la seconda, più politica, da quel cruciale momento alla ripresa risorgimentale.
Una malattia improvvisa interruppe l'opera alla fine della prima parte e l'annunciata ripresa nelle appendici non avvenne mai più.

Noi riportiamo qui il secondo ed il terzo capitolo de «I miei tempi» (Alfredo Formica - 1931, rieditato, illustrato ed aggiornato per i lettori di questo sito). E' la rievocazione che Bersezio fa della città di Torino, delle abitudini dei cittadini, dei rapporti tra le classi sociali, delle condizioni e dei costumi dei vari ceti della città, com'era nel 1840.

 



1° parte -Torino nel 1840 - Sua area - Alle porte della città - I viali - Modestia -
Semplicità - I caffè - Assenza di monumenti - Piazza San Carlo - Il cavallo di marmo.

image-1image-1La Torino dei miei primi ricordi arrivava scarsamente ai centomila abitanti.
L'area occupata era meno della metà di quella attuale (si riferisce al 1899).
A sud l'abitato finiva con quelle due grosse case che fanno imbuto alla via Roma, allora detta di Porta Nuova; delle due quella a destra di chi entra, costruita dal capo mastro Manati, che dai mattoni e dalla calce aveva saputo spremere milioni, era da poco terminata e quella dall'altra parte, fatta fabbricare dal marchese di Rorà, si stava terminando.

image-1L'imboccatura della strada costituiva la porta ideale del­la città e su di essa vegliava un corpo di guardia alloggiato nella prima bottega della casa Manati, dove poi vi fu un caffè che ora sfavilla dei cristalli e delle dora­ture di una elegante confetteria.
Una sentinella col fucile a baionetta inastata dava l’alto là ad ogni carrozza dall'aspetto forestiero, e un sott'ufficiale dei veterani, detto sergente d'armi, veniva a cacciare il capo entro lo sportello a squadrare, annusare e interrogare gli arrivanti e nel caso a richiedere carte e passaporti. La medesima funzione aveva luogo a ovest allo sbocco di via di Dora Grossa (ora Garibaldi), a est al ponte sul Po, a nord presso le Torri di Porta Palazzo. Era una specie di ufficio daziario politico e morale, che vigilava perché non entrassero idee pericolose; anche se il contrabbando di questo tipo non passava certo in carrozza.

Qui sotto: la pianta della città, nel 1819. Cliccare sull'immagine per consultare la pianta interattiva


image-1A una cinquantina di metri dalle case Manati e Rorà cominciavano i viali che formavano un largo circolo dove ora è la piazza col giardino (l'attuale piazza Carlo Felice, antistante alla stazione di Porta Nuova).
A sinistra si partivano i due rami, l'uno diretto verso il Po, dove più tardi fu gettato il ponte di ferro (si tratta del ponte Maria Teresa, poi sostituito dall'attuale ponte Umberto I), l'altro facendo col primo un angolo acuto, verso il castello del Valentino, nel quale, con poco rispetto del monumento e della memoria della galante duchessa che lo fece costruire, era alloggiata la compa­gnia dei pontieri.

A sinistra del viale dei platani, il residuo dei bastioni che difendevano la città verso sud-est era ridotto a pubblica passeggiata om­brosa di prospere piante. Nel 1931 e 1932 era il luogo di convegno dei liberali, che forse credevano di essere lontani da orecchie indiscrete, invece fu proprio lì che il 31 maggio 1833 Vincenzo Gioberti fu arrestato.



image-1image-1Questi che si chiamavano i "ripari", comin­ciando dal punto in cui è ora la Piazza Bodoni andavano a discendere dove sorge il Politeama Gerbino (Il teatro Gerbino, ora scomparso, era all'angolo delle vie Maria Vittoria e Plana. Legato, per tanti gloriosi ricordi, alla storia del teatro non solo locale ma italiano).
Sotto i bastioni, di qua e di là dei viali dei pla­tani e del Valentino, non c'erano che campi, prati, orti e qualche casina con giardino, la campagna tranquilla e solitaria.

image-1A destra di Porta Nuova, all’altezza dell'attuale via XX Settembre, cominciava la piazza d'armi che aveva il limite estremo a ponente dove ora passa il corso Re Umberto, e in mezzo al lato destro di essa si estendeva isolata la facciata dell'Arsenale, nelle proporzioni e nell'aspetto che conserva ancora oggi. Subito dopo la Cittadella che, per motivi strategici, faceva il vuoto intorno a sé.





image-1Dopo la caserma che chiudeva la via di Dora Grossa non vi erano altri edifici; verso il nord il limite del manicomio non la­sciava che qualche misera casupola.
Non favoriva la costruzione di abitazioni il funesto circolo di alti alberi che congiungeva nell'angolo retto due viali, quello dell'ovest e quello del nord; era il circolo dove risuonavano i rantoli dei giustiziati [Il Rondò della Forca].
Annidato in fondo, nella sua umidità, il Borgo Dora detto del Pallone, già mercato, fiera, trionfo di ferravecchi, con costumi speciali, con una popolazione speciale, con un modo di parlare speciale.




image-1Oltre la Dora poche case o nessuna. Al di là del Po, invece, raccolto intorno alla Gran Madre di Dio un gruppo di edifici con modeste pre­tese architettoniche, i quali per ossequio alla simmetria avrebbero voluto e aspettavano e aspettano ancora corrispondenti linee di edifici dall'altra parte.
Il borgo di Vanchiglia non esisteva che in quattro casupole di pesca­tori.

Tutt'intorno all'abitato correva una collana di viali in quadruplice fila, i quali, composti di olmi grossi e fronzuti, davano ai torinesi, per tutta la calda stagione, una fresca ombra alle loro passeggiate.


image-1La città era schiva di sfoggi ornamentali; l’architettura, poveramente severa, si contentava della pesante solennità della simmetria e rifuggiva dai fregi, dai mascheroni, dalle quisquiglie rococò, con cui le case moderne amano impiastricciare le loro facciate.
Le botteghe ave­vano una modesta semplicità che rivelava la più completa ignoranza delle più elementari furbizie dell'attuale pubblicità. Si chiudevano tutte con due battenti spessi, listati di ferro, inchiavardati a grossi chiodi dal capo rotondo, e non avevano né vetrine, né lucide insegne, né merci in mo­stra, né splendore di specchi, né indorature, né eleganze di mobili, né sfolgo­rio d'illuminazione.
La sera si serravano alle prime ombre all'estate, un'ora più tardi l'inverno, eccetto i caffè, le osterie e le farmacie.
I venditori di panni e stoffe attaccavano ai battenti della porta, un tappeto di panno ordinariamente di color turchino scuro, in cui erano ricamati in rosso o in giallo il nome del padrone o della ditta.

image-1Facevano eccezione a quella modestia i caffè e le confetterie, che pre­sentavano all'avventore volte riccamente dipinte, pareti artisticamente stuc­cate, ampi specchi a cornici dorate, sofà e seggiole coperti di velluto; sopra tutti eccelleva il caffè di San Carlo con un salone che fu detto degno d'una reggia.

La bottega da caffè era diventata poco meno che un'istituzione sociale.
Con un'apertura democratica, meravigliosa per quei tempi, i caffè ospi­tavano nelle loro sale eleganti qualunque cittadino di qualsiasi classe, onde potevano vedersi seduti accanto il ricco proprietario e il povero manovale, la signora alla moda e la civettante sartina.
Però ciascuno aveva la sua speciale categoria di clienti. Questi passavano ore e ore lungo la giornata e la sera, seduti sulle solite panche, ai soliti tavolini, nel solito angolo della solita sala. Lì si parlava di tutto quello di cui si poteva parlare: teatri, mal­dicenze, pettegolezzi, qualche scorsa nella letteratura e nell'arte; di politica mai; si sapeva che, come scrisse Vittorio Alfieri: "Ogni parete un delator conteneva".

image-1In un caffè si radunavano specialmente i buontemponi, in un altro i gioca­tori; al Fiorio i nobili e gli ufficiali, al Londra gli studenti, al Rosso in Dora Grossa gli avvocati e procuratori, al Madera gli uomini seri e i giovani studiosi.
Questo caffè che era nella cantonata fra la via dell'Ospedale e la via Lagrange (allora dei Conciatori), dove oggi c'è il negozio di panni e stoffe "Torre di Babele", ebbe una certa azione nella vita intellettuale di Torino prima del '48. Vi si potevano trovare la maggiore quan­tità di giornali e di riviste: tutte quelle pubblicazioni periodiche italiane e straniere di cui la permalosa polizia permettesse l'introduzione negli incon­taminate confini dei regi domini. Aveva assegnata per la lettura una sala in fondo, tranquilla, senz'altro passaggio, nella quale si raccoglieva un pubblico, quasi sempre il medesimo, raccolto, serio, taciturno, esclusivo d'ogni altro elemento.
Una faccia nuova era subito sospetta e troncava colla sua com­parsa ogni discorso meno ortodosso; così in una relativa libertà di parola si comunicavano pensieri e speranze.

image-1Quella comunella democratica per cui si trovavano a contatto nei caffè le diverse classi sociali non impediva che vi regnassero educazione e gentilezza. Entrando e uscendo si salutava; se capitavano signore e i tavolini fossero tutti occupati, uomini, e soprattutto giovani, si alzavano e lascia­vano il posto; se uno desiderava il giornale tenuto da un avventore, accostava salutando il leggente e lo pregava di dare poi a lui il foglio quando avesse finito e l'altro prometteva e, lettolo, portava il foglio a chi ne l'aveva richiesto, e in ciò scambio di saluti, di ringraziamenti, di convenevoli: si finiva per diventare quasi altrettanti amici.

Non si parlava forte per non di­sturbare i lettori, né anche nelle discussioni non si levava la voce; non passava neppure per la testa che si potesse avvelenare l'aria ai presenti col fumo della nicotina.
Si aveva allora nel fumare una certa pudicizia: rara­mente nelle strade, mai alle passeggiate; passando innanzi a una sentinella bisognava levare il sigaro o la pipa di bocca; in un crocchio, se sopraggiun­gesse una signora, tutti i sigari si spegnevano: sarebbe sembrato un eccesso inconcepibile fumare in un teatro.



Fu un'audace novità, quando il caffè di Londra (via Po 14) per contentare il suo pubblico speciale, aprì vicino alle sue sale, ma non con esse congiunto, un locale dove col gioco del bigliardo si aveva la libertà di fumare, bat­tezzandolo col nome esotico di Estaminet.

image-1Le piazze, conformandosi alla comune austerità edilizia, presentavano una innocente nudità di terreno, senza un monumen­to, senza una pianta, senza un fiore.
Neppure la piazza di San Carlo non vantava ancora il suo Emanuele Filiberto, che è sempre il più belloimage-1 dei monumenti; e tuttavia era allora più leggiadra di adesso quantunque la chie­sa di San Carlo non presentasse che le scanalature nere dei mattoni che aspettavano l'applicazione dei marmi. Ma gli archi di quelle due belle linee di fabbricati, invece di poggiare su massicci pilastri, come oggi, erano so­stenuti da colonne binate che lasciavano a giorno la vista dei portici e davano al complesso un'eleganza e una leggerezza ammirabili. Per disgrazia s'era mal calcolato la forza di resistenza delle colonne e il peso che dovevano sopportare, e alla prova si vide che la base troppo debole si fendeva e mi­nacciava il crollo dell'edificio.

image-1Il solo monumento di cui si gloriasse la città, anche se non del tutto pub­blico, era il famoso cavallo di marmo, ospitato in una gran nicchia ai piedi dello scalone del palazzo Reale (dove si trova ancora); un cavallaccio con delle zampaccie in aria che par minacciare di spaccare il cranio di chi si ferma a guardarlo. Piantato su in sella un Carlo Emanuele I di bronzo (monumento modellato da Andrea Rivolta, romano, che scolpì la parte in marmo; il Iuganese Federico Vanelli fuse la statua, per ordine di CarIo Emanuele I, che intendeva onorare suo padre Emanuele Filiberto. Ma il monumento fu collocato solo nel 1663, per volontà di Carlo Emanuele II, che fece sostituire alla testa di Emanuele Filiberto quella del padre, Vittorio Amedeo I, modellata e fusa dal La Fontaine. Bersezio quindi si riferisce al primo committente e non al principe effigiato).
Questa mediocrissima opera d'arte, non si sa capire il perché, acquistò una tal rino­manza in Torino a cui nessun capolavoro abbia mai potuto pervenire, e cor­reva tra il popolo la leggenda, creduta meglio della più genuina storia, che all'autore, appena finito il lavoro, furono cavati gli occhi, perché non potesse più farne un altro simile. Oh ingenuità di tempi primitivi!
Questo il teatro e lo scenario della commedia della vita torinese d'allora.

Nella seconda parte vedremo i personaggi e gli attori.



Vedi la II parte:
2 - Aristocrazia - Borghesia - Popolo - Difetti e meriti della prima - Ambizioni della seconda -
Condizioni del ceto infimo - Reciproci rap­porti - Differenze - Il vestire - Le passeggiate - A teatro - I servitori - Le villeggiature.